C’è un welfare parallelo a Roma, e lo pagano le mafie. Con la violenza agitata o praticata. Mettendo le dita nella povertà e solleticando l’ingordigia. Perché necessità e ambizioni sono quotatissime tra i clan. E la formula per tenere in equilibrio domanda e offerta non si cambia da decenni: scomporre il sistema economico esistente, seppellire qualsiasi garanzia di trasparenza, sostituire i diritti con i privilegi acquisiti a colpi di prevaricazioni. Un esercizio semplice per chi non ha mai il conto in rosso e sa che tutto ha un prezzo: il lavoro e la casa, i servizi e il benessere, lo svago e l’ambizione politica.
L’ultimo dossier dell’Associazione daSud, ‘Mammamafia’ (edito da Terrelibere.org) racconta, carte alla mano, che le mafie garantiscono reddito a interi quartieri della Capitale, che i soldi della droga servono a gestire (con sentinelle, spacciatori, custodi) posti di lavoro e controllo del territorio, che i clan assicurano efficienti servizi di vigilanza, forniscono il credito alle imprese, assegnano perfino le case popolari (come accadeva ad Ostia e come comandavano i Fasciani), fanno consulenze, animano pezzi rilevanti del commercio e del turismo, assicurano opportunità di divertimento, modificano le relazioni sociali tra i giovani. In un rapporto sempre più stretto con certa impresa e certe professioni, in una dinamica ancora tutta da indagare con la politica. Che in fondo si gioca sulla teoria dei vasi comunicanti: tutte le volte che lo Stato e le istituzioni arretrano, le mafie avanzano e creano consenso sociale. Per questa ragione e per capire cosa si muove nelle trame oscure di Roma l’attenzione va concentrata sul funzionamento del mercato e sul modo di intendere e praticare il welfare.
Avendo consapevolezza – come si legge nel dossier – che c’è un ritardo storico della città nella comprensione del fenomeno mafioso, una minimizzazione colpevole della pervasività dei clan nella vita quotidiana di ciascuno. Perché Roma conosce e rimuove il tema delle mafie da decenni, nonostante sia da tempo il teatro delle imprese di personaggi come Carmine Fasciani e Michele Senese, di terroristi neri in combutta con mafiosi, dello strapotere della Banda della Magliana e dei curricula di Cosa Nostra, dei soldi della ‘Ndrangheta e della Camorra, accanto alla goffa spregiudicatezza dei Casamonica.
E’ solo con la sentenza del 13 giugno 2014 nel processo con rito abbreviato contro i clan di Ostia che certi tabù si sfaldano, finalmente. L’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso ha una portata storica per la Capitale: viene riconosciuto il reato di 416 bis, per la prima volta dopo decenni. Gli inquirenti peraltro lasciano a intendere che c’è un cambio di passo anche nella modalità di condurre le indagini: le intercettazioni di un procedimento aperto per lesioni cinque anni prima e che si sono rivelate utilissime nella fase investigativa del 2012, fino a quel momento erano state ignorate. E in attesa del processo con rito ordinario, e consapevoli naturalmente che si tratta solo di un primo grado, i silenzi si riempiono di vergogna e nel peggiore dei casi quantomeno non si esaltano. Gli stessi silenzi sulle mafie che hanno danneggiato la Sicilia nel dopoguerra, la Calabria sul finire degli anni Settanta, la Lombardia all’inizio degli anni Novanta, e a seguire nel Lazio.
Di omicidi e gambizzazioni eccellenti e di quartieri ostaggio dei clan, invece, parla senza sconti il dossier ‘Mammamafia’. Delle ventitré attività commerciali sequestrate (un patrimonio stimato dagli inquirenti in 250 milioni di euro) in una sola inchiesta, quella che ha colpito la “Ristomafia Spa”: locali chic dall’arredamento ricercato e minimale, ristoranti di lusso o popolari, pizzerie in franchising, catene della ristorazione made in Sud, hotel economici o extralusso. Di soggetti paraistituzionali, istituti bancari e professionisti corrotti, di boss e soldatini che tengono in piedi un sistema criminale da decenni. Di appalti importanti, dalla tangenziale alla metro C, che si ottengono aggirando i protocolli di legalità e stringendo accordi con i grandi nomi delle costruzioni, garantendo prezzi concorrenziali e in certi casi assicurando all’appaltatore anche lo smaltimento dei rifiuti a costo zero. Di assunzioni ottenute con i “favori” (talvolta offerte obbligate e alternative al pizzo) e di lavoratori onesti vittime dell’economia “modello clan”. Di attività dichiaratamente illecite e di altre più o meno legali – come il gioco d’azzardo – che solo se lette dentro lo stesso quadro possono essere utili per interpretare i fatti criminali più manifesti e cruenti. Così le intimidazioni ai danni degli esercenti per costringerli a noleggiare le slot machine dalle ditte vicine ai clan e la diffusione di apparecchi truccati, si sposano con l’usura e l’estorsione ai danni di imprenditori e famiglie, e sono funzionali al riciclaggio del denaro sporco investito nell’edilizia e nella ristorazione oppure usato per corrompere e comprare manovalanza dalla strada alle curve calcistiche.
Un fiume di soldi che comunque arriva quasi sempre dall’unico business che non conosce crisi, che fa diventare potentissimi certi boss e che concede briciole a insospettabili affiliati: la droga. Un affare miliardario che serve anche a pagare gli avvocati dei detenuti, a tenere in piedi le loro famiglie e chi gli sta vicino. Un welfare alternativo, appunto, e collaudato. Non serve spingersi fino alle arcinote San Basilio e Tor Bella Monaca per trovare famiglie monoreddito disposte a usare le loro case come deposito di droga e armi in cambio di una “retta”. Si mettono in fila anche gli studenti e gli amici fidati, meglio se con uno stile di vita ordinario, dal centro alla periferia. Come si fa nei centri di collocamento. Un mercato quello della droga che nella Capitale, ogni anno, mette sul conto qualche morto ammazzato. Non siamo ai livelli della guerra per lo spaccio che ha insanguinato la periferia sud-est di Roma nel biennio 2008-2010, ma il sangue continua a scorrere (nonostante gli arresti eccellenti subiti dai clan romani e la strategia della bassa tensione scelta da alcuni gruppi per contrastare l’aggressione della magistratura) e alcuni fatti sono stati cruciali per il cambio degli equilibri. A esercitare potere e violenza in città non sono solo le mafie tradizionali, non sono le bande autoctone, non sono soltanto i cravattari che lavorano in autonomia. Sono anche le organizzazioni straniere, che gestiscono una fetta del mercato della droga e della prostituzione schiavizzando giovanissime connazionali.
Di questi e altri intrecci criminali, di una stratificazione del potere mafioso complessa e di un’intera filiera di diritti negoziata a fronte dell’assoggettamento, parla il dossier ‘Mammamafia’ che cerca di ricostruire la “Roma criminale” dell’ultimo anno alla luce di storie note che affondano le radici nel passato e di altre strade meno battute eppure centrali per leggere la libertà di movimento dei clan in città. E ‘Mammamafia’ racconta anche di come, di fronte a questa realtà, la classe dirigente diffusa e i cittadini non siano stati in grado di arginare l’avanzamento delle mafie. Per incapacità e a volte convenienza. Di come anche l’antimafia ha segnato il passo perché sconta analisi, parole d’ordine, riferimenti culturali logori e troppa timidezza nell’azione. Ecco allora la necessità di riprendere parola e progettare un racconto nuovo, che sia con la pubblicazione di un dossier o realizzando il primo murale antimafie di Roma – come ha fatto l’associazione daSud nell’ambito della sua Lunga Marcia della Memoria 2014 – in un bene confiscato alla Banda della Magliana, la Collina della Pace. Rompendo l’omertà con un gesto simbolico e omaggiando l’antimafia sociale. Anche a questo serve un movimento popolare che ha l’ambizione di portare sul terreno dell’antimafia chi non c’è, praticare i diritti sociali e civili (l’altra faccia della medaglia delle mafie). Tutti devono sentire il diritto, oltre che il dovere, di partecipare e costruire un nuovo modello culturale, strumenti per la buona amministrazione, più opportunità e giustizia sociale, un efficace welfare di prossimità, reddito. Lavorare a buoni prodotti artistici, scavare con curiosità nella realtà, coinvolgere le creatività e le intelligenze migliori, imparare a stare sul mercato della comunicazione e della cultura. L’antimafia è tale solo se non resta un luogo dell’agire politico o dell’impegno sociale, ma un prerequisito dell’agire pubblico, un punto di osservazione della società. Per togliere il terreno sotto ai piedi a tutte le ‘Mammamafia’.