Siamo ancora ai “rischi” e alle “infiltrazioni”. Nei periodi più bui “emergenza criminalità”, solo se c’è da fare la conta dei morti ammazzati però. Comunque, si chiama “mala” e non mafia. Ci sono cascati in tanti nella trappola del negazionismo. Ogni vola che gli Enti locali hanno sottovalutato (o hanno fatto finta di non vedere), quando società civile e informazione hanno abbassato la guardia. Lasciando avanzare spudoratamente chi si è impadronito di una città che fa gola a troppi e che ha spazio per tutti.
IL NEGAZIONISMO E IL PRIMO 416 BIS
Cemento, droga, usura, gioco d’azzardo e riciclaggio. Un’economia parallela che si regge sulla corruzione della Pubblica amministrazione. Eppure non siamo a Reggio Calabria e né a Palermo. Città “maledette” e lontanissime dal pudore della Capitale. Che si scompone con moderazione perfino quando il 16 novembre 2012, per la prima volta nella storia, un gruppo criminale operante nel Lazio (nativo a Casal di Principe) viene condannato al 416 bis.
Sandokan, il boss dei Casalesi, punta all’egemonia sul litorale romano. Latina è diventata stretta. A coordinare l’operazione chiama sua nipote Maria Rosaria Schiavone e il marito Pasquale Noviello. Il metodo deve essere quello di sempre, il controllo delle attività lecite e illecite del territorio. Si scelgono le imprese che funzionano e se ne rileva la proprietà. Gratis naturalmente. Pasquale Noviello d’altronde sa essere convincente. Gli basta pronunciare il cognome della moglie. E non si fa scrupoli con la violenza. Come quando si è trattato di spaccare la testa alla proprietaria di un ristorante a Cisterna di Latina. Noviello aveva iniziato con le minacce al marito: “Piglio la motosega, lo taglio in due, gli taglio la testa e ci piscio dentro, lo sparo in testa, dove sta a mare? Vado e lo squarto” aveva detto alla donna prima di lasciarla in una pozza di sangue. Per due anni roba di “mala”, anche questa volta. Poi sono scattati gli arresti e l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso.
Siamo solo all’inizio. “Questa decisione darà nuovo impulso alle indagini antimafia già in corso nel distretto di Roma” assicura il procuratore Giuseppe Pignatone. E’ uno che ha subito raddrizzato il senso comune Pignatone: “E’ vero, Roma non è come Palermo o Reggio Calabria, ma questo non significa niente, le mafie non si misurano con il bilancino”.
Non è una questione di punti di vista, ma di numeri. A cominciare da quelli sulle operazioni bancarie sospette: 3.354 a Roma quelle che ha contato l’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia nei primi sei mesi del 2012; 881 in più rispetto allo stesso periodo dell’anno predente, quando già la Capitale si attestava in pole potision. Ci sono poi i blitz della Guardia di Finanza che nel 2011 ha sequestrato beni di provenienza mafiosa per 1,1 miliardi di euro. Duecentonove quelli immobili confiscati nello stesso anno e che fanno piazzare Roma al quarto posto in Italia, preceduta da Motta Sant’Anastasia (in provincia di Catanzaro) e seguita da Lamezia Terme.
CITTA’ PORTO DI CLAN
Una città complessa Roma, porto di clan. “In tanti nel tempo hanno deciso di vivere qui” diceva il prefetto Giuseppe Pecoraro nel 2011. Se le cose stanno così, dagli anni ’60 con Frank Coppola che arriva a Pomezia e finisce per impadronirsi di parti dell’Agro romano. Passando per la famiglia calabrese dei Morabito da più di cinquant’anni nel quartiere San Basilio, meta ambitissima anche per i camorristi. Fino agli anni ’70 quando Cosa Nostra manda nella Capitale uno dei suoi uomini migliori, Pippo Calò, per stringere accordi con la Banda della Magliana. Negli stessi anni, arrivano pure le famiglie ‘ndranghetiste De Stefano, Mammoliti e Piromalli. E con loro fiumi di eroina e cocaina.
Si deve stare proprio bene a Roma, perché nessuno è mai andato via. Hanno preso la residenza in zona Flaminia le ‘ndrine di Africo Nuovo (in provincia di Reggio Calabria), i Bruzzanti e i Palamara. Nunzia Graviano, sorella degli stragisti di Cosa Nostra, gestiva il bar Diapason in via Tripolitana. Altra cosa rispetto ai locali lussuosi della ‘ndrina Alvaro (spavalda a Tor Bella Monaca, secondo gli inquirenti) che si era presa il più noto Cafè de Paris e altri nove nella Capitale, tra cui il George’s Restaurant in via Marche. Anche gi affari del clan Gallico vanno a gonfie vele, hanno messo le mani sull’Antico Caffè Chigi a piazza Colonna. E’ un impero quello che gli viene sequestrato nel luglio 2011: 18 società, tra cui l’Adonis, holding del gruppo (la cui titolare dal 2009, Sandra Zoccali, finisce nello scandalo delle polizze abusive) con varie sedi tra il quartiere Coppedè e i Parioli, poi una villa di 29 stanze a Formello, un salone di bellezza e 90 rapporti bancari. Solo una questione di residenza secondo Pecoraro. “Di affari” invece per Pignatone.
RICICLAGGIO E DANNI AL FISCO
Pignatone descrive quella che doveva essere un’evidenza, ma non sempre lo è stata: “A Roma ci sono illeciti forse più inquietanti che in altre città, e che hanno impressionato anche me”. Riciclaggio, frodi e grandi fallimenti in danno al Fisco che muovono “quantità di denaro enormi su cui forse non c’è consapevolezza”.
Uomini legati alle mafie, faccendieri, manager e imprenditori. Tutti con la smania dei soldi e del potere. Come l’imprenditore Danilo Coppola che nel 2007 finisce in cella per bancarotta, riciclaggio, appropriazione indebita e ostacolo delle attività di vigilanza della Banca d’Italia. Un crac da almeno 130 milioni, con il coinvolgimento delle banche (che hanno finanziato l’ascesa di Coppola), contatti con personaggi in odore di Magliana come l’imprenditore Umberto Morzilli (ucciso nel 2008 a Centocelle) e relazioni con uomini come Roberto Repaci, considerato il commercialista di fiducia dei Piromalli.
Una ‘ndrina ingombrante che nel 2011 ricompare nella maxi truffa (300 milioni di euro) targata Gianfranco Lande, promotore finanziario dei vip ai Parioli. I Piromalli avrebbero infatti cercato di riciclare 14 milioni attraverso Lande, che pare li abbia pure fregati restituendogli la metà dei soldi. Un impavido il Madoff dei Parioli, secondo il gip D’Alessandro poteva contare sull’appoggio delle banche (tre direttori di filiale indagati) e dell’estrema destra (almeno una persona è appartenuta a Ordine Nuovo). A settembre 2012 finisce in carcere (ma si dichiara innocente) un manager importante (ex di Finmeccanica) come Pierluigi Romagnoli. L’ accusa è di bancarotta fraudolenta e riciclaggio. E nasce attorno alla fornitura di 15 cacciabombardieri all’Austria da parte del consorzio Eurofighter, tra cui figura Alenia. Romagnoli e Lande, secondo la magistratura, avevano creato un complesso schema societario, intorno alla Centroconsult e sulla Vector Aerospace, che permetteva “di mascherare la provenienza delittuosa di denari di attività delittuose”.
E’ ancora un corso anche l’inchiesta che vede imputati per associazione a delinquere finalizzata alla frode, il presidente di Assonautica Cesare Pambianchi (ex presidente di Confcommercio) e il suo socio Carlo Mazzei. Un processo in cui Equitalia è parte civile, e che coinvolge 46 persone tra professionisti e prestanome. Secondo i magistrati, avrebbero aiutato gruppi finanziari in stato prefallimentare trasferendoli fittiziamente all’estero. Tre gli scopi che avrebbe perseguito l’associazione: la sottrazione fraudolenta dal pagamento di ruoli esattoriali (con un’evasione fiscale di 600 milioni) mediante distrazione di beni; l’autofinanziamento attraverso operazione di leasing; il riciclaggio o il reimpiego di beni e denaro. Pambianchi comunque adesso che è tornato libero (dopo il carcere e gli arresti domiciliari) non ama parlare del caso se non è costretto a farlo. E’ più interessato alla politica capitolina. A fine novembre 2012 ha fatto un comunicato stampa per sostenere la candidatura di Matteo Costantini a minisindaco del I Municipio, già segretario della sezione Pd di via dei Giubbonari, poi confluito nell’Udc e nel Terzo Polo. Che ha aperto la sua campagna elettorale istituendo un Osservatorio sulla legalità contro il rischio di “capitali mafiosi nel commercio”.
IL BUSINESS DELLA COCAINA
Fiumi di droga, cocaina perlopiù. A Roma ogni giorno ne arrivano quantità inimmaginabili. Business miliardario a cui sarebbero legati gli omicidi del 2011 (almeno 11 su 33). E’ la ‘ndrangheta a fare da “cartello” con le organizzazioni criminali internazionali, sudamericani e messicani soprattutto, insieme alla camorra. Perché, se conviene, ‘ndrangheta e camorra sanno essere un’unica famiglia. Basta pensare all’ultimo blitz antidroga tra Tor Bella Monaca e il Laurentino: il 10 gennaio 2013 vengono arrestati dieci criminali tra affiliati al clan Schiavone-Noviello e uomini delle cosche calabresi. I capi erano il laziale Romano Micconi (secondo gli inquirenti legato alle ‘ndrine Gallace e Novella) e il campano Gennaro Magrì che viveva a Roma ed era in libertà vigilata.
Un affare multietnico e in evoluzione. Lo dimostra l’operazione coordinata dalla Dda della procura di Roma il 29 marzo 2012: i carabinieri del Nucleo Investigativo di Frascati smantellano un’associazione a delinquere che importava cocaina dal Perù. Intrisa nei vestiti. Del sodalizio facevano parte italiani, georgiani e peruviani. Ma a capo c’era un romano doc di 32 anni, residente a Villaggio Prenestino, zona Lunghezza. Il prefetto Pecoraro su questo non si è mai nascosto dietro un dito: “Il mercato della droga è quello più fiorente”. Salvo poi aggiungere che “si tratta di piccole bande”.
Piccole bande, forse, ma che a volte crescono. Come quella del “pijamose tutta Roma”, sgominata con l’operazione Orfeo del 3 agosto 2011: finiscono in manette 38 affiliati. Un esercito che si era assicurato la gestione della cocaina nel quadrante est della Capitale, dal Tuscolano al Laurentino. Circa 5 milioni il valore dei beni che gli vengono sottratti. Briciole per chi riesce a vendere 30 kg di cocaina ogni mese, la stessa quantità sequestrata solo ad ottobre 2012 in tutta Roma. A comandare era Giuseppe Molisso, detto er Ciccio. Il suo bar (gestito dalla madre), l’Orfeo Notte di Cinecittà, era un luogo strategico per le organizzazioni. Tra queste,
i Casamonica.
E’ nel 2008 che er Ciccio inizia a montarsi la testa, esattamente dopo l’arresto del suo “padrino” Michele Senese. Un evento di quelli che mette in subbuglio gli equilibri. E apre il fuoco. A cominciare dal 15 maggio 2008, con il tentato omicidio di Paolo Abate, uomo di Molisso. Il 7 luglio 2008 viene ucciso Emiliano Zuin. Il 13 agosto, invece, è lo stesso Giuseppe Molisso a salvarsi da un agguato. La scia di sangue non finisce più. Così il 12 dicembre a Velletri viene ucciso il gommista Luca De Angelis, amico e socio di Gabriele Cipollini, anche lui vittima di un agguato il 4 aprile 2009. Quattro mesi più tardi viene gambizzato Roberto D’Agostino, amico e socio di Cipolloni.
Se lo aspettavano tutti. Era chiaro che il vuoto lasciato dal boss di Afragola, Michele Senese, sarebbe stato riempito. Uno che non aveva mai spezzato il cordone ombelicale con il suo territorio d’origine (in particolare con i clan camorristi Licciardi, Contini e Mazzarella) ma che sapeva trattare con la ‘ndrangheta. Un avanguardista a modo suo, perché quando arriva a Roma negli anni ’80 si butta subito sulla cocaina. E diventa re indiscusso di Roma est. Poi mette le mani sul mercato delle auto, sull’usura, il gioco d’azzardo e gli appalti pubblici. Pare addirittura che i commercianti della Tuscolana spalancassero le porte quando Michele o pazzo (dalle perizie psichiatriche che lo hanno salvato più volte dalla cella) doveva fare una telefonata “tranquilla”. Ma il Gip di Roma nel 2010 non se la sente di dargli il 416 bis. Nonostante la Dda di Roma, nel 2008, avesse ricostruito il legame tra i Senese e alcuni esponenti del gruppo storico della Magliana, come Emidio Salomone ucciso il 4 giugno 2009 davanti a una sala giochi di via Cesare Maccari ad Acilia. Così o pazzo a fine 2012 tornerà libero, dopo l’ultimo periodo agli arresti domiciliari. E qualcuno dovrà spiegare ai romani onesti perché.
IL 2011 DEGLI OMICIDI
Quella che si chiama “mala” e si legge mafia ha iniziato a sparare ben prima degli anni a cavallo tra il 2008 e il 2009. Almeno dal primo febbraio 1997, quando resta vittima di lupara bianca (in uno scontro tra calabresi e campani) un trafficante di droga come Salvatore Nigro, uomo vicino al cassiere della Magliana Enrico Nicoletti. A incontrarlo per ultimo è l’imprenditore Umbertino Morzilli, anche lui in affari con Nicoletti, coinvolto nel crack di Danilo Coppola e ucciso nel febbraio 2008 a Centocelle. Nel 2001 era toccato a Giuseppe Carlino, l’anno dopo al vecchio boss della Magliana, Paolo Frau, e a Michele Settanni. Nel 2007, un altro omicidio eccellente, quello di Gennaro Senese. Fino all’ottobre 2010, quando viene ucciso Giuseppe Criniti.
Una scia di sangue che porta dritti al 2011, l’anno in cui la pax salta dinuovo e non risparmia nessuno. Dall’omicidio di Angelo Di Masi il 19 gennaio al Prenestino, trovato con 30 grammi di cocaina e 1500 euro in tasca. A quello del 20enne Carlo Ciufo (che era stato arrestato per droga) il 23 gennaio a Corcolle. Il 5 luglio 2011 a Prati è la volta di Flavio Simmi (già vittima di un agguato), figlio di un gioielliere che ha avuto contatti con la Banda della Magliana. Qualche giorno dopo, il 27 luglio, tra Primavalle e Torrevecchia, quattro uomini in sella a due scooter uccidono Simone Colaneri. Ha sconvolto tutti l’omicidio di Edoardo Sforna, ucciso a soli 18 anni il 23 agosto a Morena, quadrante sud est di Roma. Pizzaiolo di giorno, forse spacciatore di notte. “Se nostro figlio fosse stato un deliquente almeno oggi sapremmo chi gli ha sparato” dicono i suoi genitori, ai quali fin ora è stata negata la verità. Non passa troppo tempo, il 22 novembre è ancora sangue. A due passi dal lungomare di Ostia vengono uccisi Francesco Antonini e Giovanni Galleoni, rispettivamente “Sorcanera” e “Bafficchio”. L’11 aprile due colpi di pistola contro l’imprenditore Roberto Ceccarelli, davanti al Teatro delle Vittorie. L’ha ucciso il 70enne Attilio Pasquarelli (reo confesso) per una storia “di soldi”. Ma entrambi avevano avuto rapporti con la Banda della Magliana, e la vittima in passato anche con il clan Tomasello di Catania.
Significante è anche la lista delle gambizzazioni nello stesso anno. E non ci sono confini geografici che tengano. A Casal Bruciato, ad esempio, il 10 luglio viene ferito Giulio Saltalippi. Il 17 settembre, a Largo Ferruccio Mengaroni (Tor Bella Monaca), l’obiettivo è un pregiudicato romano di 46anni, ma rimane lievemente ferita anche la figlia di dieci anni che si trovava in macchina con lui. Fino al 29 dicembre quando un 45enne pregiudicato, originario di Catania, viene colpito da tre colpi di pistola a San Lorenzo, nel quartiere vicino all’Università La Sapienza.
IL CONTROLLO DEL TERRITORIO
Il tessuto economico di Roma è miele. Esiste il controllo dei mercati rionali, dei parcheggi, della ristorazione e dei paninari. Un sistema decennale che si avvale di forza lavoro occasionale e di personaggi intoccabili. Di gente che negli anni si è “ripulita” entrando in politica. Non è un caso se la ‘ndrangheta ha investito nel commercio, acquistando “vere e proprie catene di negozi – spiega Pignatone – in Centro, per esempio, con 200mila euro sono stati comprati locali storici”. E se nella stessa Roma “bene”, i proprietari (o i prestanome) dei locali non devono preoccuparsi della crisi. Quelli notturni di via Veneto, ad esempio, servono solo ad avvicinare la “gente che conta”, che quando si tratta di concludere affari non rinuncia a farsi viziare con droga, alcool ed escort. “Hanno un numero spropositato di porteur e pochi clienti, campano d’altro…” dice un investigatore.
Canali (e personaggi) diversi in periferia, dal gioco d’azzardo ai centri commerciali, fino alle grandi speculazioni edilizie e i rifiuti. In gran parte business in mano alla Camorra. I Casalesi e i Mallardo avanzano dal basso Lazio fino a dentro Roma. Seicento milioni il valore complessivo dei beni (900 immobili) che la Dda di Napoli gli sequestra nel maggio 2011 (operazione Caffè macchiato). Tra questi, guarda caso, un complesso di villini in periferia, a Lunghezzina.
Ciascuno, insomma, ha un pezzetto di città su cui comandare. Lo aveva detto già nel 2008 l’Osservatorio regionale per la Sicurezza e la Legalità che “non è esagerato parlare di forme di controllo di segmenti significativi del territorio”. E dal momento che nella Capitale i municipi sono città nella città, gestirli uno per uno non è semplice. Serve una rete di compiacenze allora, e qualche interlocutore nell’amministrazione locale. Così accade che il latitante calabrese Strangio, tre anni fa, arrivi indisturbato fino a una struttura sanitaria di Roma. Scortato da un consigliere municipale. Oppure che un assessore parli da boss navigato: “Quello se continua lo faccio fuori, tu lo sai che mio genero è un camorrista, me l’ha detto subito…quando serve…”. Poi s’è messa in mezzo la figlia che è “troppo sensibile”, ed è sfumata l’idea dell’esecuzione punitiva. Comunque l’assessore una pistola dentro il cassetto dell’ufficio la tiene sempre. “Non si sa mai”.
Il controllo del territorio emerge anche in altre vicende. Basta andare in periferia, e certe cose riesci a vederle ad occhio nudo. Tra i vicoli dei quartieri cementificati, dove servizi e infrastrutture non sono mai arrivati. A San Basilio, per esempio, porto strategico e militarizzato della droga. Oppure in VIII Municipio, dove “senza il consenso di Enrico Nicoletti non si costruiscono nemmeno le strade” dice un amministratore. Perché il cassiere della Banda della Magliana, dalla sua casa di Torre Gaia, la fa ancora da padrone. Un lungo periodo lontano dalle cronache, poi due arresti, il 6 luglio 2011 e il 26 febbraio 2012. L’accusa è di truffa, usura e riciclaggio. Anche nel suo caso non se ne parla di dargli il 416 bis. “Soggetto pericoloso” dicono gli inquirenti, ma non un boss. Per questo gli sequestrano tutto con la legge 125 del 2008, che regola la confisca dei beni nei confronti di chi è ritenuto “abitualmente dedito a traffici e ad attività delittuose, da cui tragga almeno in parte i propri mezzi di sostentamento”. Che Nicoletti abbia ancora una certa influenza in città lo sanno gli investigatori, e speravano di farlo parlare.
L’intoccabile 75enne però non tradisce gli amici di sempre, i Casamonica e i Casalesi. Gli stessi che reclutano i fattori della droga, da Tor Bella Monaca a Ponte di Nona. Molti sono minorenni. “Negli ultimi anni è diventato sempre più difficile recuperarli, girano troppi soldi” racconta un’assistente sociale. Talmente tanti da fare una vita comoda e mantenere le loro famiglie. Spacciare insomma conviene. E denunciare genera una sorta di vergogna, perché nei quartieri ci si conosce quasi tutti. “Nostro cugino entra ed esce dal carcere, non trova lavoro” dice una giovane coppia. C’è un bar difronte alla loro abitazione, di quelli che se puoi è meglio non frequentare. Accanto, un muro con i mattoncini scollati, “è qui che nascondono la droga, oppure dietro quel cassonetto dei rifiuti”. Ma meglio fare finta di niente. “Quello che mi disturba è non potere uscire di casa, a volte in pieno giorno – dice il marito – che ne so, per prendere le sigarette, che magari ti vedono e sanno che hai visto…no, meglio stare tranquilli. Io prima controllo sempre dalla finestra”. Come si fa in una zona rossa.
LA VIOLENZA DEI CASAMONICA
Ci sono poi le storie di estorsione e minacce. Ancora in VIII Municipio, per mano dei Casamonica. Che il territorio lo controllano eccome: Romanina, Anagnina, Porta Furba e Tuscolana, fino ai Castelli Romani. E in stretta collaborazione con i Di Silvio, altro clan di origini rom. “Oh quelli menano forte” dice il proprietario di un banco alimentare costretto a portare la spesa al clan fino a casa. Gratis. Secondo la Direzione Investigativa Antimafia è la struttura criminale più potente e radicata del Lazio, con un patrimonio stimato di 90 milioni di euro e almeno un migliaio di affiliati. Le loro abitazioni sono fortezze calate nello sfarzo. Il 18 marzo 2010 i carabinieri della Compagnia di Frascati sequestra ai Casamonica un complesso immobiliare composto da 10 appartamenti (sorvegliati da 12 telecamere), in via Benestare, zona Borghesiana. Per abusivismo però. Una settimana dopo viene scoperto un sodalizio tra Pietro D’Ardes, Rocco Casamonica e affiliati alla ‘ndrangheta dei Piromalli-Molè e Alvaro per il riciclaggio dei proventi illeciti e costituzione di società (15 sequestrate) per la partecipazione ad appalti pubblici.
Gli inquirenti dicono che con la loro “forza intimidatrice”, e minacce a “mano armata” i Casamonica estorcevano costosi lavori e forniture di “materiali di lusso” per decorare le loro ville “ai danni di artigiani”. Come è successo a Mehdi Dehnavi, marmista iraniano di 40 anni. Aveva svolto alcuni lavori di pregio in una villa di via Borghesiana, per conto di Guido Casamonica. Invece del compenso pattuito, gli fracassano il naso. Dehnavi manda al diavolo l’omertà e denuncia. Fa lo stesso un altro imprenditore di Lunghezza, romano e sotto strozzo. Il 15 marzo 2011, vengono arrestati 13 usurai tra cui un vigile del I Gruppo.
LA CAPITALE DELL’USURA
L’usura è il reato più longevo. Le denunce diminuiscono, ma aumenta il numero delle vittime (secondo Sos Impresa: 28mila commercianti usurati e un giro d’affari stimato in 3,3 miliardi di euro fanno del Lazio una delle regioni più colpite). Non c’è un solo clan che abbia rinunciato allo strozzaggio non appena la figura del “cravattaro” di quartiere è passata di moda. L’hanno studiata bene la crisi economica, e ne hanno tratto un vantaggio da record a Roma, dove ci sono tassi d’interesse fino a 1500% annui. Il 65enne Gavino Marongiu, detto ‘il Bassetto’, con l’usura è riuscito a guadagnare un milione di euro solo tra il 2010 e il 2011. Conosciuto come “l’uomo dei roghi” dopo le stragi di Fiumicino del maggio 1994 e quella del Prenestino del 2000 (in quelle occasioni condannato in primo grado, è stato poi assolto), Marongiu aveva avuto rapporti con Nicoletti. “Ti taglio la testa” o “ti buco l’occhio” diceva per farsi “rispettare”. Il suo forte in verità era spaccare i nasi.
Vecchio stile in fondo. C’è invece un’usura più “raffinata” che mira “a segare le gambe alle aziende fino a ridurle al lastrico e rilevarle” denuncia Sos Impresa. Passaggi di proprietà sempre più frequenti che falsano il mercato, diktat su forniture e fornitori, assunzioni obbligate. Come insegnano i clan.
Non solo imprenditori e commercianti. Nella rete dell’usura finiscono anche famiglie, pensionati, trentenni. Sotto strozzo qualcuno c’è finito per pagare le spese sanitarie: al Gemelli “gira lo stesso usuraio da anni”, racconta una vittima. All’Umberto I, è una storia vecchia di 15 anni, il “canale” è un infermiere. E fa male i conti chi, sconfortato dalle agonie giudiziarie, pensa di potersi liberare dagli usurai senza denunciarli. Giorgio (il nome è di fantasia) è riuscito a mandare in carcere cinque criminali. Lui e la moglie finiscono sotto strozzo per poche migliaia di euro. Gestisce una piccola attività commerciale in periferia, e un cliente abituale si offre di prestargli dei soldi. Accetta ma capisce presto che non è un benefattore. Il debito aumenta. Arrivano le minacce e i ricatti. “Non sai dove trovare i soldi? – gli dice l’estorsore – vendi questa merce”. E gli mette in mano un grosso quantitativo di droga. Giorgio il mestiere del trafficante non lo vuole fare, e denuncia. Le indagini scoperchiano un pentolone: non solo droga, il malavitoso ha centri scommesse e altre attività più o meno lecite. Un classico. È romano e millanta parenti e amici camorristi. Periodicamente volano botte da orbi, una volta anche lungo un tratto di strada dove è impossibile non vedere. Eppure nessuno parla. Sono anni da incubo. Quasi cinque prima di ritornare a vivere.
IL PIZZO PER STARE TRANQUILLI
Non si denuncia invece il pizzo. A Piazza Bologna c’è chi lo paga “per stare tranquilli” da più di vent’anni. Qualcuno addirittura lo consiglia perché “se è una cifra accettabile conviene”. Altrimenti può capitare che ti sfasciano la vetrina, come è successo in zona Borghesiana. Qualcun altro voleva aprire un locale a San Lorenzo, ma ha rinunciato quando gli hanno detto che è buona abitudine pagare il pizzo. A Torre Maura si stupiscono in pochi, il pizzo funziona, “i ladri qua non ci sono mai entrati”. Pare addirittura ci sia un po’ di concorrenza negli ultimi tempi, “di stranieri e pischelli”. Una sorta di vigilanza privata, lievitata insieme alla percezione di vivere in una città insicura. Un paradosso grottesco che ha creato il racket delle guardianie nei locali notturni. Assunzioni obbligate, per essere chiari.
Nel regno del clan Fasciani e della camorra, a Ostia, il pizzo è una tassa più pesante dell’Imu. Una postazione balneare “tranquilla”, secondo i dati di Libera, può arrivare a costare 10mila euro. Tant’è che i “corto circuiti” sul litorale sono abbastanza frequenti. Colpa di “ubriachi e senza tetto” per i gestori di chioschi e ristoranti che puntualmente giurano di non aver “mai ricevuto minacce”. Gli anni peggiori tra il 2009 e il 2010 con almeno cinque incendi di natura dolosa. Ma anche quello appena passato dà i suoi frutti: vengono avvolti dalle fiamme il Free Beach a Castel Porziano e trenta cabine dello stabilimento Battistini. Fino alla bomba rudimentale trovata al Capanno, nel cuore di Ostia, il 21 luglio. “Bisogna monitorare tutte le concessioni balneari” dice da anni il deputato Pd Jean Leonard Touadì. E lo stesso deve essere fatto con le attività commerciali della ristorazione e dei bar. Perché nel XIII Municipio “c’è una consorteria criminale”. E’ un peccato che Touadì sia quasi in solitudine quando si tratta di leggere cosa si muove dentro Ostia. Perché le indagini gli danno ragione. Non solo i Fasciani e gli uomini della Banda della Magliana, ma anche il clan Cuntrera-Capuano e i Triasse (Cosa Nostra), passando per i Senese e il clan dei “Sandokan” (Camorra). Nomi fin troppo noti, da sempre e a tutti.
POTERE NERO E LE AMICIZIE SCOMODE DI ALEMANNO
Mafie, uomini che contano e potere nero. Bisogna avere rapporti trasversali per restare in piedi. Come insegna Gennaro Mokbel, l’imprenditore romano (da giugno 2011 agli arresti domiciliari) amico dei terroristi neri Mambro e Fioravanti. Tra il 2003 e il 2007, è la testa della maxi frode da 2,2 miliardi di euro che ha coinvolto Fastweb e il gruppo Telecom. A 21 anni Mokbel vive in casa con Antonio D’Inzillo, un ex-esponente dei Nar accusato di aver ucciso Enrico De Pedis, il boss della Magliana. Crescendo le sue conoscenze si allargano. Parla con un altro ex Nar, Massimo Carminati, presunto braccio della Magliana a piede libero nella Capitale e tutt’ora potentissimo secondo gli investigatori. Riesce perfino a iscrivere illegittimamente il senatore Pdl Nicola Di Girolamo nella circoscrizione Estero. Con l’aiuto della cosca della ‘ndrangheta guidata da Giuseppe Arena e dell’avvocato romano Paolo Colosimo (padre della capogruppo Pdl alla Pisana, la giovane Chiara Colosimo). E’ sempre nell’inchiesta Broker (in cui finiscono dentro pezzi di Finmeccanica) che il Ros ha accertato i contatti del Mokbel con Carmine Fasciani “dal quale ha ricevuto l’assicurazione di poter svolgere in modo indisturbato la campagna politica nella zona di Ostia”. Ha contatti anche con le forze dell’ordine: per autisti ha due agenti, Fabrizio Soprano e Mirko Pontelini. E “sentinelle” fin dentro la Direzione Investigativa antimafia di Roma dove lavorava il suo “amico” Fabrizio Magi che finisce in carcere.
La cosa quantomeno imbarazzante è che in diverse storie di potere nero e criminalità spunta il nome del sindaco di Roma, Gianni Alemanno. Nessun coinvolgimento diretto, ma c’è chi parla di lui come se lo conoscesse bene. Come fanno Mokbel e Marco Iannilli in un’intercettazione del 2007, riferendosi ad alcuni lavori di meteorologia: “Lorenzo che è un uomo di An, mi ha detto: tutto bene, si sono messi d’accordo con Alemanno, su quello che doveva essere” dice Iannilli.
Deve essere proprio uno sprovveduto il sindaco, si circonda di gente capace di rovinargli la reputazione. Scoprire che Francesco Morelli aveva a che fare con la ‘ndrangheta “e’ stato un trauma” dice Alemanno nell’aula del processo milanese sulla “zona grigia” che avrebbe fiancheggiato il clan Valle-Lampada, “pensavo fosse un amico e invece era un nemico”. Il pm gli chiede chiarimenti sui suoi rapporti con Morelli e, in particolare, su una festa elettorale durante cui il primo cittadino avrebbe conosciuto il presunto boss Giulio Lampada. “Se era il giovane che ricordo, Morelli me lo presentò come persona emergente e brillante” risponde il sindaco. Che tiene a sottolineare come la “comunità calabrese” a Roma sia la più grande. Tanto da meritarsi un delegato, l’avvocato Domenico Naccari, consigliere comunale Pdl in Campidoglio (dopo le chiacchere, trasformato in “Delegato alle comunità regionali”). Un rapporto speciale con la Calabria e con il governatore della Regione Giuseppe Scopelliti (indagato a più riprese per diversi reati), ex sindaco di Reggio Calabria, comune sciolto per mafia.
Piovono ombre sull’amministrazione capitolina anche quando viene arrestato Ambrogio Crespi, titolare di numerose società di comunicazione che operavano su Roma e fratello dello spin doctor di Gianni Alemanno, Luigi Crespi. Ambrogio, insieme alla ‘ndrangheta, avrebbe mosso un pacchetto di 2500 voti in favore dell’assessore della Regione Lombardia Domenico Zambetti.
Chissà cosa avrà provato il sindaco quando è finito in carcere Fabio Giannotta, fratello di un altro suo fedelissimo, Mirko, capo dell’ufficio decoro urbano del Comune di Roma. Secondo gli inquirenti, Fabio è il proprietario dell’arsenale scoperto nel quartiere Alessandrino: tredici pistole semiautomatiche, quattro fucili da guerra, una mitraglietta, migliaia di munizioni, giubbotti antiproiettile, passamontagna, uniformi di polizia e carabinieri. In mezzo, anche la pistola che avrebbe ucciso Emiliano Zuin nel 2008, in pieno regolamento di conti tra clan. D’altronde i fratelli Giannotta hanno un passato assai discutibile, e nel 2005 patteggiano una condanna per una serie di rapine a banche e gioiellerie. Fabio in particolare non perde il vizio, perché dietro alla vetrina di Bulgari, sfasciata da un carroattrezzi nel 2008, c’è anche lui. Sangue nero quello che scorre nelle vene dei Giannotta, figli di Carlo che è responsabile dell’ex sede dell’Msi di Acca Larentia e accusato di aver gambizzato (a gennaio 2012) l’ex Nar assunto all’Atac Francesco Bianco.
Meno sprovveduta la vicesindaco Sveva Belviso. A luglio 2012 finisce nella bufera per aver assunto come consulente esterno alle Politiche sociali Maurizio Lattarulo, detto ‘Provolino’, ex Nar ed ex sodale del boss De Pedis. Ma l’assessora risponde candidamente: “Mi ha colpito per il suo straordinario impegno sociale” , “ho pensato potesse rappresentare un esempio concreto di persona riabilitata”.
Alemanno invece preferisce stare in silenzio. Non è stato un buon anno per lui. Ha dovuto digerire lo scandalo delle mazzette ai vigili e quello dei Punti Verde Qualità. Gli è toccato difendere l’assessore all’Ambiente Marco Visconti che in un’intercettazione diceva di aver dato “una mano” alla sua compagna per un posto di lavoro “ai trasporti”. Soprattutto ha perso uno dei suoi uomini migliori in termini di voti (ben 11.996 alle elezioni del 2008), l’ex vicepresidente del consiglio comunale Samuele Piccolo (tornato libero) accusato di associazione a delinquere e finanziamento illecito ai partiti. Il fratello Massimiliano, invece, è ai domiciliari: è lui l’organizzatore e il promotore di una macchina elettorale effetto boomerang per “mister preferenze”. Ha imbrogliato il fisco attraverso 60 cooperative capaci di emettere 51 milioni di fatture false e di sottrarre 10 milioni di Iva. Risorse poi confluite per l’attività politica del consigliere. Una grossa mano gli è arrivata pure dai suoi riferimenti sparsi in città. In particolare in VIII Municipio, con l’assessore Ezio D’Angelo (Pdl) che avrebbe finanziato la campagna elettorale di Samuele con 122mila euro (senza dichiararli) attraverso un call center in via Casilina.
MAFIE E RADICAMENTO
Ne succedono di cose strane a Roma. Nascoste da una coltre di assuefazione. Diventa difficile capire, solo per fare un esempio, se un colosso della securty abbia o meno la certificazione antimafia. Oppure accade che a fronte di un cospicuo numeri di immobili liberati dalle mafie, l’Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (Anbsc) paghi 295mila euro l’anno per stare in affitto in via dei Prefetti. Costi che potrebbero essere abbattuti definitivamente, se solo i locali di via Ezio al civico 12/14, confiscati alla camorra nel ’96 (a Matilde Ciarlante, moglie del camorrista pentito Giuseppe detto Pino Cillari), e ora occupati abusivamente, venissero sgomberati. Niente da fare, ancora oggi nei tre appartamenti ci sono un centro benessere, un’agenzia di assicurazioni e un’abitazione privata. Lontani anni luce dai “fini sociali” che imporrebbe la Legge Rognoni-La Torre.
Siamo ben oltre le infiltrazioni e i “romanzi criminali”. Come spiegava già nel 1991 la commissione antimafia di Gerardo Chiaromonte: le organizzazioni criminali dispongono di una “imponente liquidità” e sono capaci di “penetrare nel mondo economico modificandone i vecchi assetti”. Grazie al coinvolgimento del mondo delle professioni quindi, alla complicità del potere nero e alle compiacenze della politica. Con i clan diversissimi per accenti, e gemellati negli affari. Con la Banda della Magliana che,
forte di essere sempre scampata al 416 bis, si aggira come un “fantasma” nella Capitale. E fa male, da un tempo estenuante. “Le mafie le vediamo tutti” dice Pignatone, “anche se non è facile che si traducano in atti giudiziari”. Un vero conto in sospeso quello che giustizia e politica hanno accumulato a partire dagli anni ’70. Non solo con le la famiglie delle vittime di “mala”, ma con l’intera comunità romana. Che non può essere salvata se non riparte l’antimafia. Quella della verità tanto per cominciare.