Quasi 110 miliardi di euro annui (tutti, o quasi, riferibili alle Regioni) che incidono sul Pil del Bel Paese per oltre il 7% del totale: quello della sanità è da sempre uno dei settori verso cui la malapolitica e la criminalità organizzata hanno puntato i propri interessi.
Il settore sanitario è, di fatto, la terza industria del Paese dopo l’alimentare e l’edilizia “e assorbe il 60/70% delle risorse dei bilanci regionali. Le aziende sanitarie territoriali – si legge sull’ultimo rapporto della commissione parlamentare Antimafia – in molte realtà sono sistemi industriali di dimensioni superiori a qualunque altro”: una montagna di denaro su cui camorra, Cosa nostra e ‘ndrangheta hanno allungato le mani, intessendo rapporti di potere e di affari che interessano numerose regioni italiane, dalla Sicilia alla Lombardia, passando per la Calabria, la Campania, la Liguria, il Lazio.
L’elenco del malaffare legato alla sanità italiana è lungo e doloroso e colpisce indistintamente sia le regioni, come la Calabria, che si allontanano dagli standard di efficienza europei, sia quelle, come la Lombardia, dove la sanità è sempre stata considerata d’eccellenza. Un affare miliardario nel quale le cosche hanno fatto – e continuano a fare – il bello e il cattivo tempo, piazzando – grazie anche a una classe politica spesso finita direttamente nelle inchieste delle procure antimafia – uomini e aziende in tutti, o quasi, i settori legati alla sanità: dalle nomine dei primari, agli appalti per le forniture mediche, passando per le ristrutturazioni edilizie, le aziende di pulizia e le assunzioni di personaggi legati a filo doppio con il crimine organizzato.
Non solo i soldi
Ma non ci sono solo motivi economici alla base dell’interesse mafioso sulla sanità: gli ospedali e le Asl sono infatti presìdi sul territorio. E proprio intervenendo in questi contesti che i clan si occupano delle esigenze dei cittadini. Infatti, grazie al loro ruolo di primo piano nella società locale, possono utilizzare una sorta di canale privilegiato per erogare i servizi sanitari. E’ uno dei modi in cui gestiscono il consenso, politico ed elettorale, e si assicurano il prestigio sociale.
Il caso Locri
Paradigma evidente di questo cortocircuito affaristico-mafioso è certamente il caso della ex Azienda sanitaria 9 di Locri, in provincia di Reggio Calabria. La stessa Asl, suo malgrado, protagonista dell’omicidio dell’ex vice presidente del consiglio regionale calabrese (e primario del pronto soccorso dello stesso ospedale di Locri) Francesco Fortugno, giustiziato nell’ottobre del 2005 (il 16 ottobre, nel giorno delle primarie dell’Unione) come una sorta di vendetta per la mancata elezione in consiglio regionale dei un altro “ras” della sanità, primo dei non eletti: quel Mimmo Crea finito poi in prigione non per l’omicidio Fortugno, ma per l’inchiesta “Onorata sanità” che mise in luce gli affari criminali legati una residenza per anziani di cui era proprietario.
Seconda in ordine di tempo a cadere nella rete degli investigatori che ne certificarono le contiguità con il malaffare mafioso – il primo caso risale all’ottobre del 2005 e riguarda l’Asl “Napoli 4”, che comprendeva 35 comuni del capoluogo campano – l’affaire Asl 9 riunisce tutti gli elementi tipici delle infiltrazioni del crimine organizzato all’interno delle (redditizie) amministrazioni pubbliche. Un “caso” nel quale, scriveva il prefetto Basilone nella relazione che portò allo scioglimento dell’ente per infiltrazioni mafiose, «da un lato si è riscontrata un’arbitraria occupazione da parte della criminalità locale organizzata e dall’altra una compressione dell’autonomia dell’Asl la cui volontà è risultata fortemente diminuita». Un radicamento antico quello della ‘ndrangheta nella sanità calabrese e che, proprio a Locri, si evidenziò in tutte le sue sfaccettature. Una sorta di infiltrazione “verticale” che finì con il coinvolgere praticamente tutti i settori legati all’erogazione di prestazioni sanitarie (vere o taroccate che fossero). La commissione d’accesso studiò per mesi le “carte” dell’azienda sanitaria e quello che venne fuori fu un “mondo al contrario” dentro il quale si trovarono a lavorare personaggi dal curriculum criminale enciclopedico (alcuni di essi continuarono a lavorare nonostante sentenze passate in giudicato che ne sancivano la perpetua interdizione dagli uffici pubblici, altri addirittura continuarono a ricevere regolarmente lo stipendio nonostante si trovassero in galera da anni). E poi le prestazioni erogate dalle ditte private e convenzionate con il sistema sanitario nazionale «che hanno potuto indebitamente beneficiare di introiti talvolta pari anche al triplo di quello determinato con i tetti sanitari» e, data anche la enorme mole delle prestazioni erogate da tali strutture, «che l’incremento del ricorso alle strutture accreditate sia stato in qualche modo incentivato, o comunque non arginato dalla stessa amministrazione sanitaria». Il tutto sulle spalle della cittadinanza che, oltre a ritrovarsi una sanità da terzo mondo, con strutture fatiscenti e misteriose morti in seguito a ricoveri, si è vista dimezzare anche i posti letto ospedalieri, con la conseguenza dell’aumento esponenziale della cosiddetta “emigrazione sanitaria”.
Il caso Pavia
“I briganti devono farsi galantuomini – ha detto il procuratore nazionale antimafia aggiunto Gianfranco Donadio alla commissione parlamentare Antimafia – Il loro stile di vita, le frequentazioni, i contatti sempre più intensi che ebbero con ambienti imprenditoriali rappresentano esattamente questo anelito a trasformarsi in galantuomini da briganti quali erano. Le modalità del fare impresa criminale furono quelle che offriva il mercato”. Una dichiarazione che, anche se precedente all’operazione “Infinito”, sembra ritagliata sulla figura dell’ex “padrone” della sanità pavese (oltre 500mila utenti e un giro d’affari che abbatte il muro del miliardo di euro annuo, per uno dei poli sanitari considerati tra i più funzionali d’Europa), Carlo Chiriaco, condannato a inizio dicembre a 13 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa e turbativa d’asta. L’ex direttore sanitario dell’Asl di Pavia, intrecciando rapporti con presunti boss, avrebbe accettato di essere parte di quel “capitale sociale” di cui le organizzazioni mafiose hanno bisogno per espandersi. Se a Locri quindi la criminalità organizzata aveva, col tempo, occupato praticamente tutti i gangli della Asl 9, a mille chilometri di distanza e con qualche anno di fisiologico ritardo, la stessa mafia calabrese era riuscita a “prendersi” direttamente il direttore sanitario di una delle aziende più influenti del Paese. Un traguardo prestigioso che da un lato consentiva ai cartelli criminali di ottenere certificati compiacenti per boss che volevano passare dal regime carcerario a quello ospedaliero – come nel caso del mammsantissima Pasquale Barbaro, di cui Chiriaco si sarebbe occupato per una degenza negli ospedali lombardi – dall’altro ottimizzava le “entrature buone” dello stesso Chiriaco nei settori delle gare d’appalto pubbliche e nella stessa politica regionale, dove l’ex direttore sanitario si sarebbe speso – attraverso i contatti con l’avvocato tributarista Pino Neri (condannato nello stesso processo ad una pena di 18 anni di reclusione) e con il boss Cosimo Barranca, capo della “locale” di Milano e condannato in primo grado col rito abbreviato a 14 anni di carcere – per l’elezione di alcuni consiglieri regionali sbarcati poi al Pirellone.
Da Sud a Nord, insomma, la storia è sempre la stessa.