Esiste un immaginario, più consolidato di quanto pensiamo, sulle mafie e l’antimafia: il bandito Salvatore Giuliano, Don Vito Corleone il padrino di Little Italy, Tony Montana il signore della coca di Miami, il commissario Corrado Cattani, le storie dei boss corleonesi Totò Riina e Bernardo Provenzano, le indagini del pool antimafia di Palermo, il Capitano Ultimo, il coraggio di Peppino Impastato, l’intransigenza del sindacalista Placido Rizzotto, la non “follia” di Leonardo Vitale, i traffici dei rifiuti dei Casalesi, il Romanzo criminale della banda della Magliana, il ladro gentiluomo Renato Vallanzasca. Sono alcune delle storie che il cinema, la fiction televisiva e i fumetti hanno raccontato in questi decenni. Narrazioni di successo che hanno contribuito alla costruzione di una rappresentazione della criminalità organizzata e di chi la combatte. Talvolta hanno dato una visione del fenomeno mafioso come qualcosa di folkloristico, fatto di coppole e lupare, di “baciamo le mani” detti a mezza bocca, di vecchi boss buoni contro giovani rampanti cattivi, ingordi e pronti a tutto per scalare le gerarchie del potere mafioso. Esigenze commerciali e di trama che hanno prodotto descrizioni sbagliate o parziali, “eticamente scorrette”, spesso per rendere sempre più accattivanti i racconti e le figure dei criminali di successo. Altre volte hanno cercato di restituire la complessità delle mafie: scavando nell’area grigia, raccontando i compromessi e le connivenze della politica, delineando la borghesia mafiosa, indagando i business internazionali dei clan. Questo percorso artistico ha contribuito alla creazione e alla sedimentazione di un immaginario, costruito anche su stereotipi, su vizi commerciali e talvolta sulla semplificazione del fenomeno. Un immaginario spesso perversamente affascinante, incentrato sui crimini e sui personaggi che li compiono. Alla stessa maniera ormai sono tante le storie raccontate di resistenza, di sacrificio di chi è morto cercando di ribellarsi al potere criminale. Una produzione moltiplicatasi in relazione ad un maggior acquisto di consapevolezza sul fenomeno, avvenuto dagli anni Settanta in poi.

Le mafie sullo schermo
La storia del cinema in molte occasioni è andata di pari passo con la violenza mafiosa, creando di fatto una sorta di neorealismo antimafia: dai nostri Francesco Rosi (Il caso Mattei, Lucky Luciano) e Pasquale Squitieri (Camorra, Il prefetto di ferro, Corleone, Il pentito) fino ad Hollywood con le opere di Francis Ford Coppola (Il padrino e Il padrino parte II) e Brian De Palma (Scarface, Gli intoccabili). La propensione naturale della produzione americana cercava di rispondere a esigenze di intrattenimento, con pellicole spesso contraddistinte da una ricerca a tutti i costi degli ingredienti dell’action movie e spesso dalla parte dei “cattivi”. In Italia invece Rosi e Squitieri, insieme a Damiano Damiani (Il giorno della civetta, Perché si uccide un magistrato), Giuseppe Ferrara (Il sasso in bocca, Cento giorni a Palermo) e Giuseppe Tornatore (Il camorrista) continuano quello che possiamo definire un filone del cinema di denuncia sociale e di impegno civile (stagione iniziata da Elio Petri, Alberto Lattuada e Pietro Germi).
Serve citare questa produzione italiana non per fare una sintetica e arbitraria storia del cinema, che in questa sede sarebbe del tutto fuori luogo, ma per capire come il cinema abbia raccontato la realtà che viveva, girando delle pellicole utili a capire il fenomeno mafioso e lo sviluppo del movimento antimafia, in base agli eventi del tempo. Tentativi, seppur timidi, di far comparire sul grande schermo la borghesia mafiosa, l’area grigia e le mafie imprenditrici. Negli anni Ottanta e Novanta, con l’escalation della violenza di Cosa nostra e l’attacco allo Stato con gli omicidi di uomini centrali della lotta alla mafia (magistrati, prefetti, uomini delle forze dell’ordine), i film rinunciano a raccontare la complessità, presentando classiche dicotomie: buoni contro cattivi, eroi e vittime contro carnefici, martiri contro potenti. In una guerra in cui lo stato ha sempre più difficoltà a contrastare il male. Il sopracitato Damiano Damiani è il primo regista della grande fiction La piovra, serie televisiva che dal 1984 al 2001 tiene incollati al piccolo schermo milioni di telespettatori con le indagini del commissario Corrado Cattani sugli affari, le violenze e le connivenze di una mafia tentacolare, retta dal boss incontrastato Tano Cariddi. Una serie tv che comincia ad approfondire i business criminali: dai traffici locali alle collusioni con la pubblica amministrazione, dalla mafia finanziaria delle banche internazionali (con sede centrale nel Nord Italia) ad un contesto sempre più fitto e vorticoso che porta il commissario Cattani ad essere ucciso da Cosa Nostra. La piovra è una delle fiction più seguite dagli italiani, con il 50% di share medio e il record di 17 milioni telespettatori nel momento dell’agguato a Cattani.
Il cambio di filosofia avviene nella fine degli anni Novanta e l’inizio del Duemila: Ciprì e Maresco (Lo zio di Brooklyn) e Roberta Torre (Tano da morire) riescono a raccontare con nuovi linguaggi cinematografici le mafie: usando i registri dell’ironia, del grottesco e della quotidianità della criminalità organizzata nelle nostre vite.
Il film che fa da spartiacque tra un prima e un dopo è quello di Marco Tullio Giordana, che contribuisce a creare memoria, ricondividendo la storia di Peppino Impastato ne I cento passi. Il Film, con le storie dei suoi personaggi, i dialoghi e la colonna sonora, diventa centrale nella formazione di una generazione che durante le stragi era composta da bambini e che nel 2000, vicino alla maturità, conosce una storia importantissima di resistenza quotidiana alle mafie. Impastato rappresenta finalmente un uomo comune, non solo eroe e martire, dai gesti riproducibili e vicini: fare un giornale, raccontare alle radio. Non è un esempio inavvicinabile, soprattutto in anni in cui il web rappresenta un momento di espressione e libertà, come le radio libere lo erano state a fine anni ’70.
Durante il Duemila tanti altri i film che hanno fatto memoria, come Placido Rizzotto di Pasquale Scimeca, Alla luce del sole di Roberto Faenza, il documentario In un altro Paese di Marco Turco, L’uomo di vetro di Stefano Incerti. Altri film cercano di rispondere ad altre esigenze: da quella d’informazione e inchiesta La mafia è bianca di Stefano Maria Bianchi e Alberto Nerazzini, a Biutiful cauntri di Esmeralda Calabria, alle pellicole che strizzano l’occhio al cinema americano come Romanzo criminale e Vallanzasca di Michele Placido. In tv, principalmente con fini di intrattenimento, è il turno della grande fiction, con le serie di “Ultimo”, “Squadra antimafia”, “Il capo dei capi” e i film tv dedicati a Falcone e Borsellino.
Nel 2008 Gomorra di Matteo Garrone, trasposizione cinematografica del libro di Roberto Saviano, vince il gran premio della Giuria del 61° festival di Cannes. Come nei racconti del libro, sono tante le storie che si intrecciano nella province di Napoli e Caserta, dalle vele di Scampia ai terreni pieni di rifiuti tossici di Casal di Principe. Un ritratto realistico, recitato da molti attori presi dalla strada, che restituisce in buona parte gli interessi dei casalesi, uno dei clan più attivi della camorra, conosciuti al grande pubblico solo dopo il successo inarrestabile del romanzo di Saviano.

Quanti stereotipi, oggi
L’arte e la creatività possono avere l’ambizione e l’opportunità di raccontare la realtà, di offrire nuovi punti di vista, di mettere un discussione un sistema di valori consolidato. Purtroppo siamo ancora vittime di alcune rappresentazioni sbagliate sulle mafie e il cammino verso una loro rappresentazione realistica si rivela tutt’altro che semplice. Ma la colpa o il peccato originario non è ovviamente del mondo dell’arte, bensì di un’eccessiva semplificazione e capacità di analisi, spesso dovuta all’assenza di sinergie virtuose tra giornalisti, studiosi, sceneggiatori e associazioni. Il punto di partenza nella ricostruzione di un immaginario della criminalità organizzata e della lotta ai clan deve essere quello per cui “la mafia e l’antimafia prendono forma insieme e si configurano a vicenda”, come dice bene Rocco Sciarrone, docente di Sociologia all’Università di Torino. La questione centrale insomma riguarda proprio la conoscenza del fenomeno mafioso, rimasta troppo simile a quella del dopo stragi del 1992: la globalizzazione, i traffici internazionali, i clan in giacca e cravatta, i figli che studiano ad Oxford, e via discorrendo.
È fuorviante pensare alle mafie come delle malattie, come dei tumori che attaccano il tessuto sano della società, metastasi che partono dal Mezzogiorno per infettare e diffondersi via via in Italia ed Europa. La natura “centralizzata” della mafia (dalla metafora della piovra a quella del contagio) è uno dei primi stereotipi da demolire: le mafie, fin dalla loro nascita si configurano come soggetti “in movimento”, cioè alla ricerca di relazioni e cooperazione con l’economia, la giustizia e lo Stato, in legami e rapporti che non sempre vedono le mafie attore principale della rete criminale. Un racconto che cerca di superare gli stereotipi dovrebbe approfondire e narrare la ricchezza delle mafie: non solo capitale economico ma in primo luogo sociale. Gli imprenditori, i politici e gli uomini dello Stato che scendono a patti con i clan sono infatti rappresentati sul grande e piccolo schermo come “traditori”, mentre viene sottovalutato come costituiscano altresì un’area grigia che ottiene un vantaggio competitivo e una strategia vincente di creare consenso e capitalismo.
Altre visioni pregiudiziali da sfatare riguardano una descrizione delle mafie come risultato culturale e di “mentalità” del Sud, oltre al mito dell’arretratezza del Mezzogiorno e dell’assenza dello Stato (per approfondire “Mafie vecchie, mafie nuove” e “Alleanze nell’ombra” a cura di Rocco Sciarrone). Cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra non sono fenomeni circoscritti ad aree geograficamente limitate, non vanno chiusi gli occhi su zone del Mezzogiorno in cui le mafie non si sono sviluppate.
Anche la dicotomia Stato-Antistato è scorretta e fuorviante: le mafie non hanno mai voluto governare il Paese e sostituire il potere politico, bensì grazie al controllo delle risorse statali, degli appalti e dei lavori pubblici mirano a creare consenso e ampliare il capitale sociale. Parlare di immaginario di riferimento delle mafie significa quindi mettere in discussione tutti gli stereotipi che ne viziano un’adeguata narrazione e che impediscono di restituire la complessità dei clan oggigiorno.

Memoria condivisa dal basso ma non riconciliata dall’alto. E il racconto del presente
Serve insomma saper comunicare la complessità, fuggendo da retorica e stereotipi consolidati.
Ad esempio, occorrono solo gli eroi per fare antimafia? Noi la pensiamo diversamente. L’antimafia è patrimonio di tutti, non serve delegare a nessuno una battaglia che per troppo tempo si è cristallizzata attorno a personalità ritenute dall’opinione pubblica in grado di poter contrastare le mafie e cambiare le cose: magistrati, scrittori, giornalisti, politici e rappresentanti della cosiddetta società civile. Alcuni dei quali minacciati proprio dai clan per il loro impegno.
L’unica soluzione possibile oggi è quella del racconto: arricchire l’immaginario delle mafie e dell’antimafia, raccontare storie di resistenza del passato e ricostruire memoria, di esempi replicabili, modelli virtuosi, magari anche di uomini e donne non uccise per mano mafiosa. L’antimafia può e deve diventare un movimento popolare grazie anche alla narrazione dello stesso, del presente, delle tante persone che oggi nel loro piccolo cercano di cambiare il Paese, senza la retorica e le dicotomie classiche. Raccontare la complessità delle mafie è una sfida: superare gli eroi che muoiono e gli affascinanti boss cattivi, approfondire le tantissime sfumature dell’area grigia, composta da diversi tipi di relazioni, evitare le biografie, restituire la pluralità dei punti di vista.
L’arte è uno dei migliori strumenti al servizio della battaglia culturale contro le mafie: se riesce a diffondere conoscenza e aiutare la crescita di uno spirito critico può creare maggiore consapevolezza sulla criminalità organizzata e su chi ogni giorno cerca di combatterla con diversi strumenti.

È possibile costruire assieme un immaginario antimafie, dei diritti sociali e civili in cui si possa riconoscere gran parte del Paese?
Tanti i tentativi in corso: nel cinema e in tv (Tatanka di Giuseppe Gagliardi, Et in terra pax di Daniele Coluccini e Matteo Botrugno), a teatro (con U tingiutu di Scena verticale o gli spettacoli della compagnia di Emma Dante), nei fumetti (le graphic novel della collana Libeccio di Round Robin con le storie, tra le altre, di Pippo Fava, Natale De Grazia, Antonino Caponnetto e Roberta Lanzino, i libri a fumetti sulle storie di mafia di Becco Giallo edizioni, la graphic history Un fatto umano di Einaudi), nella musica (quarant’anni fa il concept album – censurato – “Terra in bocca” dei Giganti, oggi alcuni episodi come “L’appello” di Daniele Silvestri o il tour dei Modena City Ramblers), nei musei (il Cam di Casoria o la “Fiumara d’arte” siciliana), nella satira (dal siciliano Gianpiero Caldarella al lombardo Giulio Cavalli). Molte cose importanti restano fuori da questo parziale e arbitrario elenco. I nuovi linguaggi (le graphic novel, i murales, i social media) possono aiutare la condivisione dei racconti e delle storie.
L’importante è anche non rischiare di cadere in contro-stereotipi: nessuna polemica, quindi, sui “cattivi modelli” raccontati dal cinema e la tv, se dei ragazzini scimmiottano i vari Riina, il Libanese o Vallanzasca, non è un problema dell’arte ma dell’educazione scolastica. La scuola dovrebbe farsi carico di insegnare a leggere la realtà, e la distinzione tra buoni e cattivi maestri dovrebbe giocarsi sull’utilizzo o meno di programmi scolatici aggiornati e di strumenti critici e stimolanti di analisi, come la lettura dei giornali o l’utilizzo dei social network.
Parliamo di una sfida: coinvolgere scrittori, artisti e produzioni e spronarli a raccontare nuove storie, promuovendo nuovi progetti culturali (più produzioni sulle vittime o sulle lotte, sulla partecipazione, sui diritti) e l’utilizzo di tutti i linguaggi creativi per offrire prodotti di qualità, magari ignorando qualche volta le strategie di marketing e le tendenze del momento.