PREMESSA. ESPERIENZE IN COMUNE PER IL CAMBIAMENTO
Non lo scopriamo noi e non lo scopriamo oggi. Le mafie, la corruzione, l’enorme zona grigia fatta di silenzi complici e connivenze che negli ultimi vent’anni hanno pervaso la società italiana (e non solo) sono uno dei frutti avvelenati del mercato selvaggio, la cui unica regola è che non ci sono regole. In questo quadro, la cosiddetta crisi – la cui radice sta nell’ossessione per le mani libere e nella fiducia cieca per la “mano invisibile” che regola spontaneamente il sistema economico – è il più prolifico brodo di coltura per quell’intreccio di finanza immorale, riciclaggio di denaro sporco, profitti spropositati, cricche e clan che trovano la loro definizione sintetica nell’espressione “borghesia mafiosa”.
Questo implica, in estrema sintesi, che le misure da mettere in campo per “superare” la crisi dovranno coincidere sostanzialmente con quelle da praticare per liberare il Paese dalle mafie. Per rivelarsi efficaci, però, queste misure non si dovranno limitare a curare i sintomi della malattia. Piuttosto dovranno colpire il sistema di fondo che ha generato sia la crisi economica e sociale sia il saldarsi di questa sciagurata alleanza tra mafie e pezzi di società.
A subire una trasformazione profonda deve essere il modello economico e sociale e protagonisti di questo cambiamento non possono che essere i cittadini, attraverso una rivoluzione copernicana che deve partire da una rinnovata percezione (e proposizione) del sé. Affinché l’esigenza di questa trasformazione diventi patrimonio condiviso, e quindi ribellione e ricostruzione, è necessario che ciascun cittadino e ogni realtà sociale prendano coscienza del fatto che la sensazione di inadeguatezza, inappagamento e precarietà spesso vissuta come conseguenza del fallimento delle singole esperienze sono in realtà le conseguenze del modello socio-economico “mafiogeno” e iniquo che si è andato affermando. Per contribuire a questa presa di coscienza è molto importante il ruolo della narrazione, intesa sia come “informazione” che va alla radice del carico di sofferenza imposto ai singoli (individui e gruppi) dal sistema iniquo, sia come estensione degli spazi di confronto (e ci auguriamo che Restart Antimafia sia uno di questi) in cui ci si guarda in faccia per scoprire che l’insoddisfazione “comune” può diventare pratica di cambiamento e cooperazione.
Questa diversa modalità di collocare il sé nel contesto sociale comporta anche il ripudio di un termine che è diretto discendente della logica del “finanzcapitalismo”: quello di competizione, ormai considerato irrinunciabile in diversi ambiti, dall’economia all’istruzione. Per costruire nuove pratiche e uscire dall’inadeguatezza “solitaria” è necessario riflettere sul fatto che seguendo questo modello ciascuno soddisfa in autonomia i propri bisogni e punta sul successo personale, senza curarsi delle conseguenze del proprio agire sull’altro e sulla comunità. Questa condotta non lascia spazio alla nascita di un’etica pubblica, mortifica il valore del progresso come moto collettivo, lascia indietro le cosiddette fasce deboli e in politica si trasforma nel “premio” al miglior offerente (chi è più potente, famoso, ricco, forte), alla faccia della partecipazione e della responsabilità di tutti e di ciascuno rispetto a deliberazioni che riguardano l’intera collettività.
La risposta alla crisi e al radicamento mafioso nella società non può non passare dal rifiorire del principio di cooperazione, diretta esplicazione di quelli di partecipazione, eguaglianza, reciprocità e solidarietà, perché solo un approccio basato sul “noi” può dar vita allo stesso tempo a vantaggi per i singoli e per la collettività.
A questa consapevolezza deve affiancarsene un’altra altrettanto importante: quella per cui non è più tempo di chiedere alla politica di accogliere (sotto forma di programmi e promesse elettorali) le istanze che giungono dalla società. Bisogna concorrere a fornire tali risposte e costruire il nuovo immaginario e il nuovo assetto sociale proprio mentre lo si rivendica e si lotta perché altri corpi sociali ne riconoscano la necessità e utilità. Sul fronte della rappresentanza politica questo consentirà anche di sottrarsi a una logica personalistica della leadership e di imparare a praticare una leadership diffusa che si forma con l’attitudine all’ascolto e al coordinamento (non al comando né al prevalere di una maggioranza su una minoranza).
Da questo punto il percorso è già avviato in alcune importanti esperienze in senso lato “antimafia”. E l’associazione daSud, nel suo piccolo e assieme a tanti altri, si sente già in cammino sulla strada della costruzione di un nuovo modello, consapevole che i fronti d’impegno sono molteplici, che non ci si può accontentare di raccogliere i frutti nel proprio campo d’azione ma vanno sostenuti quanti partendo dalla stessa “visione” si impegnano in altri settori, e soprattutto consapevoli che le “buone pratiche” sono necessarie ma non sufficienti al cambiamento.
Questo documento riporta alcune “best practices” che hanno ottenuto importanti cambiamenti in ambiti più o meno ristretti della lotta alle mafie, dal consumo consapevole alla legislazione passando per l’uso sociale dei beni confiscati. Siamo consapevoli che per diventare “sistema dominante” queste testimonianze devono essere nutrite di cooperazione, educazione, costruzione di un nuovo immaginario. Questo percorso, come abbiamo già detto, va contemporaneamente praticato e rivendicato, diventando così politica, cura e manutenzione della cosa pubblica anche (ma non solo) attraverso la rappresentanza e le forme di democrazia diretta, in entrambi i casi fondatrice – sulla base del rinnovato e condiviso immaginario – di nuove regole. Solo così, grazie a una tensione morale comune e una confluenza operativa delle energie, le buone prassi potranno diventare democrazia economica e quindi democrazia nel senso pieno, partecipato e “giusto” del termine.
In questo quadro, l’importanza di praticare, approfondire, diffondere e “scambiare” esperienze positive sta nella possibilità di sperimentare, di costruire situazioni economiche capaci di dare sicurezza psicologica e materiale alle persone (in questo senso è d’obbligo citare il reddito di cittadinanza come strumento di emancipazione dal giogo mafioso), di offrire occasioni di instaurare relazioni interpersonali concrete, di dar vita a un reticolo di pratiche di auto-aiuto sociale sui territori. Perché per sviluppare una cultura etico-civile condivisa devono essere improntati alla giustizia sociale e alla democrazia partecipata non soltanto gli obiettivi ma anche le pratiche per raggiungerli. Questo processo creativo e cooperativo diventa così il motore del cambiamento politico attraverso la costruzione aperta e condivisa di una nuova cultura, che non è altro che la “generalizzazione” delle originalità singolari attraverso l’apertura agli altri e al nuovo.
LA CAMPAGNA “IO MI CHIAMO GIOVANNI TIZIAN”
Da oltre un anno Giovanni Tizian, giornalista impegnato sul fronte antimafia con l’associazione daSud, autore del libro “Gotica” edito dalla casa editrice Round Robin, vive scortato per aver denunciato con le sue inchieste la pervasività delle mafie in Emilia Romagna e in generale al Nord. Un racconto faticoso per chi lo deve comporre e scomodo per le tante orecchie che non vogliono ascoltarlo. Difficile ma necessario, non soltanto per Giovanni, che già da bambino ha vissuto sulla propria pelle la violenza della ‘ndrangheta quando, il 23 ottobre del 1989,suo padre, Peppe Tizian, è stato ucciso per aver fatto bene il suo lavoro di impiegato di banca. Questo racconto è necessario per l’intero Paese e non “silenziabile” né dalle minacce dei mafiosi né da ipocrite e miopi logiche di consenso politico.
Per questo l’associazione daSud ha deciso di stare, se possibile ancora più di prima, al fianco di Giovanni. Lo ha fatto lanciando la campagna “Io mi chiamo Giovanni Tizian”, raccontando anche insieme a lui le storie nascoste o dimenticate di mafia e antimafia di questo Paese, dando vita a una scorta popolare fatta di associazioni e cittadini, artisti e intellettuali, e raccogliendo un elenco di “buone pratiche antimafia” che rendano evidente come per liberarsi della criminalità organizzata non ci sia bisogno di eroi ma di tanti piccoli gesti, che messi in comune possono costituire importanti leve di cambiamento. La campagna e la raccolta di buone pratiche proseguono (per segnalazioni si può scrivere a iogiovannitizian@nexusmedia.it/das) all’insegna della frase di Giuseppe Valarioti, intellettuale e politico di Rosarno ucciso per il suo impegno a trent’anni nel 1980, diventata il motto si daSud: “Se non lo facciamo noi chi deve farlo?”.
Di seguito riportiamo, senza pretese di esaustività, un elenco di iniziative e attività che nei relativi ambiti hanno dimostrato di rappresentare risposte efficaci alla prevaricazione mafiosa. Auspicando che anche dalla riflessione su questi strumenti e sulla loro riproducibilità ed estensibilità prenda l’abbrivio un percorso operativo di costruzione di un nuovo immaginario antimafie.
RAPPRESENTANZA POLITICA
Nel campo della rappresentanza politica più che di buone pratiche ci sembra innanzitutto il caso di parlare di regole di minima decenza da importare per metterci al pari con gli altri Paesi cosiddetti avanzati in materia di corruzione, falso in bilancio, autoriciclaggio. Va prevista la punibilità per il reato di voto di scambio politico mafioso (art. 416 ter c.p.) non solo quando ci sia l’erogazione di denaro, ma quando se ne ottenga qualsivoglia altra utilità e va allungato il termine di prescrizione del delitto di voto di scambio “ordinario”, previsto dalle leggi elettorali, dal momento che oggi il reato si estingue dopo due anni.
Sul fronte delle candidature, poi, è necessario sottolineare come in Italia non si sia introiettata la percezione dell’opportunità di non candidare soggetti sotto processo per reati gravi come quelli di mafia o contro la pubblica amministrazione. Ci pare dunque utile segnalare come buona pratica quella attuata dai movimenti politici che applicano questa regola come principio etico generale o comunque la inseriscono in un codice di autoregolamentazione prevedendo, come suggerito di recente anche dal magistrato di Cassazione Raffaele Cantone, “l’incandidabilità per ogni tipo di elezione non solo dei condannati in primo grado per alcuni specifici reati ma anche dei semplici rinviati a giudizio per reati connessi alle mafie e di quegli amministratori citati nei provvedimenti di scioglimento dei consigli comunali come contigui ai clan”.
Per quanto riguarda gli eletti, invece, il punto di riferimento per improntare la loro condotta ai criteri di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione sanciti dalla Costituzione è la cosiddetta “Carta di Pisa”, codice etico promosso da Avviso Pubblico cui possono aderire tutti gli amministratori locali sottoscrivendo così una serie di impegni che vanno dagli obblighi di trasparenza ai divieti di cumuli di cariche e conflitti d’interessi, fino alla prevenzione di pressioni indebite e a precise prescrizioni sui finanziamenti. Questo prezioso strumento potrebbe essere spontaneamente adottato anche dagli eletti al Parlamento nazionale e in ogni caso merita di essere diffuso e portato alla conoscenza dei cittadini, mettendo effettivamente in atto e divulgando gli esiti dell’attività di verifica relativa al rispetto degli impegni assunti.
ENTI LOCALI
Sul fronte più specifico della lotta alle infiltrazioni mafiose negli enti locali segnaliamo l’insediamento presso il Comune di Milano della Commissione consiliare permanente antimafia, composta da 18 consiglieri, che si affianca al Comitato antimafia istituito dal Sindaco Giuliano Pisapia e composto da cinque esperti. Strumenti come questi, se non limita la loro azione all’analisi delle carte e se si mettono attivamente in contatto con le dinamiche territoriali, possono rivelarsi preziosi per le attività di prevenzione e per orientare le scelte dell’amministrazione, soprattutto in materia di appalti.
Proprio per contrastare le infiltrazioni mafiose negli appalti, il Comune di Lamezia Terme ha approvato una delibera che prevede: l’obbligo per gli uffici comunali di informarsi sulle imprese coinvolte per ogni appalto superiore a 300 milioni di euro; la facoltà del Comune di recedere senza penali da un contratto anche se l’informativa su infiltrazioni mafiose arriva a lavori già iniziati; l’obbligo di escludere da tutte le gare in qualsiasi momento le imprese legate alle mafie.
A Bari è stata istituita l’Agenzia lotta non repressiva alla criminalità organizzata. Tra i tanti progetti attivati anche la costituzione di parte civile nei processi di mafia, la gestione dei beni confiscati ai clan, l’assistenza ai figli dei condannati per mafia.
In Liguria è stata approvata la Stazione unica appaltante. In collegamento con le Prefetture, che possono fornire dati e informazioni utili per la prevenzione delle infiltrazioni della criminalità organizzata, introduce l’opportunità per gli enti locali di avvalersi della Regione per l’affidamento della progettazione e dei lavori di importo pari o superiore ai 500.000 euro.
“Provincia senza mafie” è il nome della consulta antimafia della Provincia di Roma che vuole rafforzare la rete di enti locali e associazioni disposte a fare azioni di prevenzione, comunicazione e informazione contro le mafie.
CONSUMO CRITICO
Il consumo critico in chiave antimafia ha rappresentato un momento di svolta per la lotta al racket nel nostro Paese. Il merito di aver iniziato la campagna è senza dubbio di Addio Pizzo, il comitato nato spontaneamente a Palermo nel 2004 federando – su iniziativa di un gruppo di giovani – un centinaio (all’epoca, oggi sono oltre 700) di commercianti intenzionati a dire no alle richieste estorsive. Da allora l’esperienza di Addio Pizzo ha fato molti passi in avanti, tanto che davanti alla vetrofania attaccata sulle vetrine dei negozi – come risulta da alcune intercettazioni – gli estorsori scelgono di non entrare e di rivolgere altrove le proprie attenzioni. Il motto “Pago chi non paga” si è poi diffuso in numerose città italiane grazie anche all’impegno di associazioni come il Fai ed Sos Impresa, che oltre a dare sostegno agli imprenditori taglieggiati sensibilizzano i consumatori spingendoli a fare i loro acquisti presso imprese ed esercizi commerciali che decidono di non sottostare alle pressioni mafiose. “Con il pizzo – diceva Libero Grassi, l’imprenditore antiracket di Palermo ucciso il 29 agosto 1991 – la mafia si fa Stato” riaffermando il proprio controllo sul territorio: questa considerazione, valida ora come vent’anni fa, rende ancora più evidente l’importanza di iniziative come queste e come le cosiddette passeggiate antiracket che il Fai organizza nelle maggiori città italiane, soprattutto al Sud, portando cittadini comuni, scolari, uomini delle forze dell’ordine e istituzioni fin dentro i negozi e le attività d’impresa, con l’obiettivi di comunicare agli imprenditori la vicinanza della società sana e delle istituzioni a chi sceglie di non cedere al ricatto.
In quest’ambito non possiamo non citare un’altra recente e preziosa esperienza partita da Palermo, quella di Addio Pizzo Travel, che propone pacchetti turistici per scoprire la bellezza della Sicilia senza lasciare un centesimo alla mafia e mettendo in contatto le persone che vengono da lontano con le storie e i volti dei siciliani che hanno detto no al racket.
PROFESSIONI
Seguendo l’esempio di Confindustria Sicilia, che nel 2008 sotto la presidenza di Ivanhoe Lo Bello aveva introdotto l’espulsione dall’associazione di categoria per gli imprenditori che pagano il pizzo, alcune organizzazioni di professionisti si sono poste il problema di regolamentare le ipotesi in cui i loro iscritti siano coinvolti in inchieste legate alla criminalità organizzata. In questi anni, con la collaborazione di Addiopizzo e Libero Futuro, è nato il manifesto del comitato “Professionisti Liberi” che propone agli iscritti agli ordini professionali la sottoscrizione di un atto d’impegno contro la mafia e la corruzione.
Nel 2011 il comitato unitario dei professionisti di Modena ha approvato una “Carta etica antimafie”, che prevede la radiazione del professionista nel caso di condanna definitiva per reati di associazione mafiosa o favoreggiamento, e la possibilità di sospensione in caso di indagine in corso.
SCUOLA E UNIVERSITÀ
I maestri di strada contro la dispersione scolastica a Napoli, lo “Scampia trip” del collettivo (R)esistenza. A Bovalino, in località bosco, il Centro di aggregazione giovanile “Padre Puglisi” gestito da Suor Carolina e a Gioiosa Ionica il “Don Milani”. Il doposcuola dei maestri volontari nei quartieri difficili di tutta Italia. I laboratori nelle scuole di daSud e altre associazioni antimafie. E poi gli archivi e le biblioteche: la Mediateca “Giuseppe Valarioti” a Roma, Stopndrangheta.it in Calabria, il Centro siciliano di documentazione “Giuseppe Impastato”, le pubblicazioni dell’associazione Cuntrastamu.
Le attività con gli studenti, delle scuole di ogni ordine e grado, sono un’avventura nell’avventura. Ricostruire una memoria antimafie in questi luoghi, ovviamente con i linguaggi appropriati ai tempi e ai destinatari, senza prediche né beatificazioni, è il migliore investimento che possa fare una realtà che si occupa di lotta al crimine organizzato. Su questo fronte va segnalata, in particolare, l’esperienza dei laboratori di fumetto fatta dall’associazione daSud dal 2009, in concomitanza con la nascita delle collana di fumetti antimafie “Libeccio”, edita da Round Robin. Un’occasione per “giocare”, ragionare sulle regole di una tecnica artistica e narrativa, decostruire il mito del boss e dell’eroe antimafia e “sceneggiare” con la tecnica della scrittura collettiva storie di liberazione dal giogo mafioso attraverso il riappropriarsi di spazi e opportunità.
In ambito universitario vanno segnalati, tra gli altri, i master sulla gestione dei beni confiscati dell’Alma Mater di Bologna e della Federico II di Napoli, quello sulla Legislazione Antimafia di Perugia e i laboratori, molte delle quali avviate su iniziativa degli studenti, volte ad approfondire la questione mafiosa.
INFORMAZIONE
Fare informazione sulle mafie comporta rischi e necessita di strumenti e risorse. Sempre più spesso, invece, il quadro di precarietà generale vede affidata alla buona volontà dei singoli giornalisti (spesso precari e malpagati) e non a una scelta politica delle testate la possibilità di fare inchieste e raccontare a fondo. Segnaliamo a tal fine alcune realtà impegnate a invertire la tendenza e a sostenere i reporter che si espongono in prima persona. Un esempio è l’osservatorio “Ossigeno per l’informazione”, che censisce e segue i casi di minacce, intimidazioni e violente nei confronti dei giornalisti. “Errori di stampa” è invece il coordinamento dei giornalisti precari di Roma. Si batte per il rispetto dei tariffari dei collaboratori, a favore dell’indennità di disoccupazione per tutti i contratti atipici e per la regolamentazione degli stage nelle redazioni.
La Federazione nazionale stampa italiana con Libera informazione ha istituito lo sportello antiquerela “Roberto Morrione” (maestro di giornalismo impegnatissimo sul fronte della lotta alle mafie, alla cui memoria è anche intitolato un premio dedicato ai giovani video reporter) per assistere i giornalisti e rilanciare l’appello per cambiare le attuali leggi sulle querele temerarie, sul reato di diffamazione e sul risarcimento per vie legali attraverso cause civili.
Sul fronte degli organi di stampa, invece, a parte quelli “storici” dell’antimafia (Narcomafie, Antimafia Duemila e più recentemente Libera Informazione), la rete dei Siciliani giovani mette insieme diverse testate indipendenti provenienti da tutta Italia. Sono fatte prevalentemente da giovani e sono un’altra cosa rispetto all’informazione ufficiale, hanno una forte caratterizzazione antimafiosa e non si sentono autosufficienti. A dicembre 2011 è stato lanciato il progetto del mensile “I Siciliani giovani”, consultabile online e presto disponibile in edicola. Una segnalazione speciale va alle radio libere sul web come Radio Aut, Radio Cento passi, Radio Siani e Radio Kreattiva.
RIUSO SOCIALE DEI BENI CONFISCATI
I beni confiscati alle mafie sono la buona pratica per eccellenza. Con la confisca e il riuso dei beni per finalità in senso lato sociali la collettività si riprende il maltolto e costruisce così non soltanto il risarcimento al danno subito, ma una speranza concreta (attraverso le opportunità lavorative e culturali collegate) di sottrarre manovalanza al crimine organizzato. In questo ambito le tante e preziose esperienza di beni riutilizzati rappresentano ancora una minima parte del patrimonio confiscato e ancor più di quello sequestrato. Il valore simbolico di questi presidi è inestimabile, ma altrettanto importante è e sarà la loro capacità di innescare processi di innovazione sociale, affermazione di un’economia sostenibile per le persone e per l’ambiente e opportunità di lavoro e di progresso per il territorio. Paste, vini, oli, conserve e altri prodotti biologici a marchio “Libera Terra”, realizzati da cooperative giovanili che lavorano nelle terre confiscate alle mafie, sono la conferma che questo modello può rappresentare un volano anti-crisi e anti-mafie al tempo stesso. Ancor più quando queste esperienze mettono in campo l’ulteriore prezioso ingrediente del sostegno ai più deboli, come accade –per fare soltanto un esempio – a san Cipriano d’Aversa (Ce) per la Nuova Cucina Organizzata, cooperativa sociale che occupa un gruppo di persone con disagio psichico.
ARTISTI
Nel lavoro di ricerca sull’estetica dell’antimafia daSud ha incontrato tanti artisti che si dedicano ai nuovi linguaggi e attraverso la sperimentazione e la creatività ragionano e “fanno ragionare”. Come il collettivo musicale Popucià, il rap anti-’ndrangheta dei Kalafro, gli attori di Scena verticale e i loro spettacoli in giro per l’Italia, il laboratorio teatrale di Emma Dante alla vicaria di Palermo, il Gapa e il suo teatro civile nel quartiere San Cristoforo a Catania. Per fortuna la sensibilità del mondo artistico nei confronti dei danni che arrecano le mafie è sempre più elevata. Spesso però ci si limita a dichiarazioni di intenti prive di un vissuto o di un percorso concreto. L’auspicio è che siano sempre di più i cantanti, attori, musicisti disposti a mettersi in gioco ragionando sui linguaggi e le modalità per rendere popolare l’antimafia e spendendosi con continuità in percorsi di formazione e sensibilizzazione strutturati.
ASSOCIAZIONISMO
Che cosa significa costruire un immaginario antimafia? Nulla di teorico né tantomeno di noioso. Sono numerose le realtà che concorrono (o almeno dovrebbero) a raggiungere quest’obiettivo, ma un ruolo chiave lo hanno avuto negli anni soprattutto le associazioni. Al di là di quelle che hanno una specificità antimafia, vogliamo segnalare tra le buone prassi quelle di alcune realtà che nella loro “ragione sociale” non hanno assunto questo impegno come prioritario. Pensiamo ad esempio al Gridas di Scampia, punto di riferimento del quartiere partito con la realizzazione degli splendidi murales di felice Pignataro e giunto al suo 31esimo carnevale fatto con l’autocostruzione di maschere e carri realizzati con materiali di scarto. Oppure si pensi a “La forza del silenzio”, Onlus nata con l’intento di assistere i bambini affetti da autismo e diventata un punto di riferimento nazionale per i familiari di giovani con questa patologia, ma anche un presidio locale antimafia e un’opportunità occupazionale, grazie al fatto che il bene confiscato di Casal di Principe in cui ha sede (parte della villa di Francesco “Sandokan” Schiavone) è una fucina di idee e attività capaci – assieme a tutte le iniziative che animano le Terre di don Peppe Diana – di ridare speranza a un intero territorio. Un ruolo importante, in questo senso hanno le associazioni sportive, le palestre (come quella di Scampia diretta dal Judoka oro olimpico a Sydney Pino Maddaloni), i campi di calcio e tutte le realtà che portano i cittadini a contatto con l’altro e con il territorio, le strade, le bellezze naturali. Così come sono fondamentali le realtà che promuovono l’accoglienza e la reciproca conoscenza con le comunità dei migranti, sul cui sfruttamento da parte del crimine organizzato non c’è bisogno di soffermarsi in questa sede.
PER CONCLUDERE
Queste esperienze confermano – qualora ce ne fosse bisogno – che le buone prassi antimafia di cui il Paese deve dotarsi non sono quelle che si autodefiniscono tali, ma soprattutto quelle che per il loro valore di utilità e giustizia sociale e di proposizione di un modello anche economico alternativo a quello dominante possono costituire l’ossatura di un’Italia diversa. Per questo l’associazione daSud tiene a ribadire che il vero “Restart” dell’antimafia ci sarà soltanto quando questo movimento diventerà popolare e diffuso ben oltre il recinto (il cui steccato è ormai abbattuto) dei cosiddetti addetti ai lavori. Se la mafia si è ormai saldata con ampi strati della società, la battaglia sarà vinta soltanto quando il sentimento antimafie sarà giudicato conveniente – e quindi maggioritario e radicato – in tutte le fasce di popolazione e in tutto il territorio nazionale.