Gentile Ministra Severino
Le scriviamo per esprimerLe tutto il nostro sconcerto, la nostra indignazione, il nostro sconforto e la nostra preoccupazione per quanto è accaduto a Milano in queste ore davanti alla Corte d’Assise. Si sta producendo un’ingiustizia per le persone coinvolte in un procedimento e un precedente gravissimo per tutte le cittadine e i cittadini di questo Paese.
Le stiamo naturalmente parlando del processo per l’omicidio di Lea Garofalo in corso davanti alla prima Corte d’Assise di Milano che vede imputato il suo ex compagno Carlo Cosco insieme ad altre 5 persone. Le stiamo parlando di un chiaro omicidio di ‘ndrangheta, avvenuto nella civilissima Milano che invece, secondo il pubblico ministero Marcello Tatangelo, andrebbe giudicato come un comune delitto. Sarebbe stato un delitto d’onore, compiuto da un pregiudicato che non ha sopportato il tradimento della moglie e che vuole proteggersi, e non un delitto di ‘ndrangheta, per tutelare degli affari dei clan. Un’analisi non corretta, un fatto gravissimo, ministra Severino. Che non può che provocare smarrimento e sfiducia a chi ne ha sentito parlare in queste ore.
Lea Garofalo è una donna originaria di Petilia Policastro, un paese della provincia di Crotone, che ha vissuto a Milano. Ha avuto la sventura di scegliere un uomo sbagliato che si chiama Carlo Cosco. Ha 35 anni quando viene sequestrata, interrogata, uccisa e sciolta nell’acido. Paga il fatto di avere lasciato il marito, difeso sua figlia Denise e raccontato ai magistrati gli affari dei clan calabresi attivi a Milano. La sua collaborazione con i magistrati della Direzione distrettuale antimafia meneghina inizia nel 2002. Racconta di un traffico di droga in cui è coinvolto suo fratello Floriano (considerato uno dei capi del clan della ‘ndrangheta di Petilia attivi a Milano) e dell’agguato del 2005 nel quale proprio Floriano è stato ucciso. Racconta anche di altri affari, di altri fatti di sangue. È una collaboratrice credibile e le viene trovata una protezione a Campobasso insieme a sua figlia Denise. Resta lì fino al 2009, quando il suo ex convivente la trova e, secondo l’accusa, manda un sicario per farla uccidere. Un piano di morte che fallisce. Lea e Denise devono ricominciare. Ci riprovano da Milano. Non ci riescono. Lea sparisce nel nulla. La verità viene a galla nell’ottobre 2010: Lea Garofalo è stata rapita, interrogata per sapere cosa ha raccontato ai magistrati di Milano, uccisa con un colpo di pistola e sciolta in 50 litri di acido in un terreno di San Fruttuoso, nella zona di Monza. A organizzare tutto secondo i magistrati è il suo ex compagno, Carlo Cosco.
Non sfugge a nessuno che si tratta di un omicidio di chiara matrice ‘ndranghetista. Per le modalità con cui è avvenuto, per i personaggi coinvolti. Eppure la giustizia italiana non la pensa così. Incredibilmente. Già il giudice per le indagini preliminari aveva rigettato l’aggravante mafiosa che in un primo tempo era stata chiesta dai pm. La motivazione è a dir poco sorprendente: “Non vi è alcun dubbio che i Cosco e la stessa famiglia Garofalo appartengano, storicamente, a contesti delittuosi di stampo ‘ndranghetista”, ha scritto il gip autorizzando gli arresti. La conseguenza del ragionamento è che “questo “sfondo” è tratteggiato in modo troppo generico e coloristico per potere individuare una cosiddetta cosca di Petilia Policastro… Oggi l’unico dato certo è che i Cosco ammazzano per favorire se stessi”. Che significa questa espressione? Chi sono i Cosco se non due fratelli affiliati alla ‘ndrangheta come sostiene lo stesso giudice? E, in ogni caso, di chi è la responsabilità del fatto che la cosca calabrese quando entra in un’inchiesta della procura di Milano diventa altro? Di chi è la colpa se il quadro è stato “tratteggiato” in modo “troppo generico e coloristico”? I magistrati milanesi non tengono conto delle attività criminali dei Cosco svelati da Lea Garofalo (che infatti collabora con la Direzione distrettuale antimafia), non considerano il racconto di un pentito che sostiene che l’intenzione di ucciderla era stata manifestata da Carlo Cosco davanti “ad altri due “reggenti” della ‘ndrangheta calabrese”, non badano al fatto – grave e paradossale – che un giudice di Campobasso ha già condannato uno degli imputati per il tentato sequestro della stessa Lea Garofalo con l’aggravante della finalità mafiosa. Per il tentato sequestro c’è l’aggravante mafiosa, per il sequestro e l’omicidio no.
Che giustizia è, che Paese è quello che applica due pesi e due misure, quello che sa riconoscere la presenza delle mafie soltanto nelle aule di tribunale del Sud? Che senso ha avuto riconoscere da parte del primo presidente della corte, Filippo Grisolia, oggi Suo capo di gabinetto, la richiesta di costituirsi parte civile avanzata dal Comune di Milano, che si riteneva danneggiato nella propria attività di contrasto “alle infiltrazioni mafiose negli appalti e nel mondo imprenditoriale”?
E c’è dell’altro, ministra. Che non può certamente essere accantonato. In questo processo è accaduta una cosa straordinaria: la figlia di Lea Garofalo, Denise, ha raccontato quello che sa e ha visto. Servono coraggio, forza, determinazione, capacità di guardare in faccia il dolore per superare la lacerazione che provoca testimoniare contro il proprio padre. Oggi, come cittadini, guardiamo con un senso di frustrazione al nostro Paese che è incapace di tutelare questa giovanissima donna. Che l’ha costretta ad andare due volte in aula per fare la medesima durissima testimonianza (per l’azzeramento del processo che mai sarebbe dovuto esserci). Che non crede alle sue parole quando dice che suo padre le chiese “se c’erano delle carte, se poteva leggere ciò che aveva detto” sua madre ai magistrati (altro che tradimento!). Denise, familiare di una vittima della ‘ndrangheta per tutti, oggi non lo è per lo Stato, che le può riconoscere questo status con i benefici.
Eppure il quadro che emerge è chiaro, come hanno spiegato benissimo le parti civili che hanno tentato in extremis – ancora una volta – di convincere il pm a chiedere l’aggravante mafiosa: “Tutti i reati addebitati agli odierni imputati sono stati commessi con modalità d’azione di stampo mafioso e con il preciso scopo di agevolare l’attività di un’associazione di tipo mafioso, segnatamente della cosca di ‘ndrangheta di Petilia Policastro”. Il clan di cui avrebbero fatto parte i Cosco che avevano avuto spazio e agibilità “proprio in virtù della relazione che intercorreva tra Carlo e la sorella”. Invece Carlo Cosco, secondo il pubblico ministero, avrebbe agito non tanto per tutelare la cosca dalle rivelazioni della donna, ma per proteggere lui stesso.
Non siamo qui per emettere nessuna sentenza, signora ministra. Saranno i giudici a farlo. Ma se la realtà è quella che emerge dalle accuse, le stesse accuse non possono non tenere dentro l’aggravante e la modalità mafiosa. Se i fatti sono veri, sono fatti di ‘ndrangheta. È stato un omicidio di ‘ndrangheta, altro che omicidio passionale. Altro che delitto comune. Un Paese civile non può non farsene carico, una giustizia giusta non può non tenerne conto, una società civile attenta e che ha a cuore il proprio futuro non può non farne motivo di indignazione e necessità per il cambiamento.
In questi giorni la nostra associazione ha pubblicato un dossier che si intitola “Sdisonorate. Le mafie uccidono le donne”. Abbiamo raccolto e raccontato più di 150 storie di donne assassinate dai clan. Donne che vengono uccise dentro un tessuto sociale capace di accogliere in maniera deformata concetti come l’onore, il rispetto, la fedeltà. Dentro un contesto in cui l’arcaico investe la contemporaneità. Dentro il mondo dei clan. Una mattanza nella mattanza, di cui nessuno parla. In un Paese unito dalla presenza delle mafie, da Nord a Sud, in cui la stragrande maggioranza delle vittime innocenti non trova giustizia nelle aule dei tribunali, in cui i partiti e le classi dirigenti sono screditati dai fatti, in cui i governi – mai – considerano la lotta alle mafie come la vera priorità, il prerequisito per l’agire politico, non possiamo permetterci questa ennesima ingiustizia che si consuma in un luogo sacro come un’aula di tribunale.
Ministra Severino, l’associazione daSud è nata più di sei anni fa da un gruppo di giovani donne e uomini costretti a lasciare il Mezzogiorno per cercare di trovare una dimensione per la propria esistenza ma che non ha mai pensato di consegnare i propri territori di provenienza allo strapotere delle cosche, all’incapacità delle classi dirigenti. Lavoriamo con grande passione, con la consapevolezza della forza che possono avere le cittadine e i cittadini italiani, con profondo rispetto del ruolo delle istituzioni. Lavoriamo per ricostruire le storie delle vittime dimenticate, per fare un racconto del Paese reale, per produrre pratiche e percorsi concreti contro le mafie e il malaffare, per fare della battaglia antimafia una battaglia popolare e di tutti. Convinti che il tempo per combattere le mafie è finito da tempo, che adesso è il momento di sconfiggerle.
Dia una scossa antimafia a questo governo che ancora troppo poco ha fatto, faccia di tutto perché non si consumi questa gravissima ingiustizia dentro il tribunale di Milano. Non faccia perdere la fiducia nel nostro Paese ai tanti giovani che credono nel cambiamento e vogliono essere protagonisti del futuro dell’Italia. Antimafia.
Associazione antimafie daSud