LE NOTIZIE DA RICORDARE
Le “banche” della mafia
Dalle criptovalute al gratta e vinci: le nuove vie del riciclaggio
9 febbraio 2024
Gli spalloni 4.0 sono i “cambisti” cinesi, vere e proprie banche con delle filiali sparse in mezzo mondo. Un’indagine della Procura di Roma a febbraio svelano che i “pick-up money” principali, che raccolgono i soldi delle più importanti ‘ndrine dell’area jonica calabrese, si trovano nella Capitale in capannoni sperduti lungo la Casilina, la Tiburtina e la Prenestina, ma anche all’Esquilino.
Ogni giorno arrivano dei veri e propri corrieri con montagne di soldi da ripulire e danno via alle operazioni grazie a un codice (di solito ricavato dalla foto del numero di serie di una banconota) da mostrare al cassiere.
Secondo l’accusa, il sistema faceva capo al boss Vincenzo Alvaro, che ricorreva anche a operazioni di ricarica di carte Poste pay, intestate fittiziamente a terze persone, effettuate in tabaccherie compiacenti o con Gratta&Vinci che giustificavano al bisogno il possesso dei contanti in possesso.
Un’altra frontiera del riciclaggio delle mafie – sono state numerose le inchieste nel corso del 2024 – è rappresentata dalle criptovalute, che hanno rivoluzionato il modo di ripulire i soldi sporco anche grazie controlli inefficaci e regolamentazioni differenti da Paese a Paese. La nuova economia mafiosa parte da qui e finisce nelle nostre città con ristoranti, bar, pizzerie, pasticcerie, parrucchieri, sale biliardo, aziende di di logistica, produzioni cinematografiche e ogni settore in cui ci sia la possibilità di guadagnare.
La caduta degli dei
L’antimafia sotto processo: dal caso Striano alle indagini sui magistrati Natoli, Pignatone e Boccassini.
6 marzo 2024
“Striano non può aver fatto tutto da solo”. Così il procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo in audizione alla commissione Antimafia sullo scandalo dei dossieraggi che sarebbero stati effettuati dal finanziere in servizio presso la Procura nazionale antimafia Pasquale Striano. La procura di Perugia sta conducendo l’inchiesta, non ancora conclusa, che dovrà chiarire anche il ruolo del sostituto procuratore nazionale antimafia, Antonio Laudati, e le responsabilità di altri magistrati, militari e funzionari. Ma non è stata l’unica indagine a colpire pezzi dello Stato.
Il 2024 rischia di essere ricordato come l’anno della “caduta degli dei”, con accuse pesanti, peraltro tutte da dimostrare e approfondire nelle sedi giudiziarie, per alcuni magistrati che hanno speso una vita nella lotta alle organizzazioni criminali. Inchieste sono state avviate infatti nei confronti di magistrati simbolo dell’antimafia come Giuseppe Pignatone e Gioacchino Natoli – la Procura di Caltanissetta li indaga per il presunto insabbiamento dell’indagine sugli imprenditori mafiosi Nino e Salvatore Buscemi e i loro rapporti col gruppo Ferruzzi guidato da Raul Gardini – e Ilda Boccassini, che secondo la procura di Firenze durante l’interrogatorio nell’ambito dell’inchiesta sulle stragi mafiose del 1993 avrebbe taciuto ai magistrati informazioni di cui sarebbe stata in possesso.
Il quadro è ancora tutto da chiarire, sullo sfondo sembrano esserci lotte di potere tra diversi pezzi e poteri dello Stato, ma certo quello che emerge è un colpo di immagine non solo per le donne e gli uomini delle istituzioni che per anni hanno incarnato la lotta alle mafie, ma per le istituzioni nel loro complesso.
Il grande bluff
Sandokan prima si pente e poi ci ripensa
30 marzo 2024
“Dopo 26 anni di carcere duro si pente Sandokan, boss dei Casalesi”. “Svolta”. “Ora luce sui rapporti tra camorra e politica”. Questo e molto altro si leggeva a fine marzo sui principali siti e giornali italiani, con tanti servizi tv che andavano a raccontare l’epopea criminale di Francesco Schiavone, detto Sandokan, e la grave malattia che avrebbe influito sulla sua decisione di collaborare con la giustizia. Ma già nelle primissime ore, qualcosa non quadra. Subito i familiari prendono le distanze dalla sua decisione e non aderiscono al programma di protezione previsto per i parenti dei collaboratori di giustizia. Va ricordato, tra l’altro, che nel 2018 il figlio primogenito, Nicola, aveva già scelto di collaborare con la giustizia e tre anni più tardi era toccato al secondo figlio Walter.
Inizia un’altalena di voci che si chiude all’inizio di luglio quando viene esce la notizia dell’interruzione della collaborazione con la giustizia per volontà della Procura di Napoli, perché le informazioni fornite nei mesi non sono state ritenute credibili o utili, e la conseguente revoca del programma di protezione. Un bluff del capo dei capi dei Casalesi che non avrebbe mai voluto sporcare e perdere la sua leadership dentro l’organizzazione criminale. Ha tentato di ricevere benefici dalla giustizia, riportando dicerie o fatti già conosciuti, ma non c’è riuscito. Ci sarà un’altra occasione?
Il ritorno del Bufalo
Il boss Marcellone Colafigli arrestato per traffico internazionale di droga
Martedì 4 giugno.
“Tu sei una bomba atomica, sei una figura troppo importante”. Sono le parole che l’autista e guardiaspalle di Marcello Colafigli, conosciuto come il Bufalo di Romanzo Criminale, rivolge al suo capo, boss della Magliana, registrate in un’intercettazione agli atti di un’inchiesta della Dda che, a giugno, ha disposto misure cautelari per traffico internazionale di droga e altri reati per 28 persone. I magistrati
Dall’inchiesta emerge un clan, con alla testa Marcellone Colafigli, con base logistica e operativo alla Magliana e influenza sul litorale laziale.
“Marcellone”, a quasi 74 anni, dopo tanti anni passati tra carcere, semi libertà e servizi sociali, ancora manteneva legami con la criminalità organizzata italiana e straniera e aveva la voglia di “rimettersi in gioco”.
Per gli investigatori, Colafigli, mentre era in regime di semilibertà e con la compiacenza di una cooperativa agricola dove lavorava, era riuscito pianificare cessioni e acquisti di ingenti quantitativi di sostanze stupefacenti in Spagna e Colombia, mantenendo rapporti con esponenti della ‘ndrangheta, della camorra, della mafia foggiana e con albanesi inseriti in un cartello narcos sudamericano.
A Roma c’è posto per tutti. Anche per i vecchi boss.
La mentalità mafiosa negli stadi
Il pentimento del capo ultrà e il radicamento delle mafie nel calcio
3 settembre 2024
Antonio Bellocco, erede di una delle più importanti cosche di ‘ndrangheta e uno capi della curva dell’Inter, viene ucciso da Andrea Beretta, capo ultrà interista, per il controllo degli affari a San Siro. È solo l’ultimo di una serie di episodi che ci raccontano come le mafie siano sempre più radicate nel calcio e di quanto denaro gira intorno agli stadi.
Ora il pentimento di Beretta e l’inizio della collaborazione con la giustizia ha messo in subbuglio la curva interista che ha prontamente risposto con uno striscione molto esplicito: “La tua infamità non appartiene alla nostra mentalità”.
Perché Beretta si è pentito? Per paura di essere ucciso da una cosca ‘ndranghetista spietata come quella di Rosarno, per vendicarsi della morte di Antonio Bellocco? Quali segreti e rivelazioni potrà fare agli inquirenti?
Calcio e mafia, curve e criminalità. Legami indissolubili, sempre più forti e radicati da Nord a Sud. Vendita di biglietti, cibo e bevande, merchandising, spaccio di droga, gestione dei parcheggi all’esterno degli stadi e molto altro rappresentano il business milionario di chi ha in mano le chiavi delle curve italiane.
Dai Vikings della curva juventina che ricattavano i dirigenti per ottenere appalti e biglietti, a Diabolik, narcotrafficante e leader degli Irriducibili della Lazio vicino alla camorra, da Luca Lucci, capo ultrà del Milan fotografato anni fa, tra gli altri, con il Ministro Salvini in occasione dei 50 anni della curva milanista, poi arrestato per traffico di droga, fino al gruppo ultras Teste Matte del Napoli, dedito al narcotraffico dentro e fuori il San Paolo.
Tante sono le domande senza risposta dell’omicidio Bellocco. Intanto la curva interista ha messo un punto fermo: Beretta è l’infame, il traditore, mentre gli ultrà, quelli “veri” rimangono fedeli alla mentalità criminale.
La mattanza dei ragazzini
Giovani uccisi, faide tra baby gang e rivolte in carcere
23 ottobre 2024.
Un corpo bruciato trovato lo scorso ottobre in una campagna alla periferia di Napoli è quel che resta di una mattanza di giovanissimi. L’ennesima. Ad agire un ragazzo di 16 anni spara a bruciapelo e uccide un ragazzo poco più grande di lui, un ventenne. Poi, insieme a dei complici, bruciato il corpo. “Gli affari dello spaccio andavano sistemati”, dice agli inquirenti dopo l’arresto. La sua carriera criminale era già iniziata con un tentato omicidio di un altro ragazzo del quartiere Pianura sempre per questioni di spaccio. Agguati. Faida. Pistole. Soldi. Ma anche violenza, spietatezza e ferocia. Questo si legge negli articoli che parlano della mattanza dei ragazzini che si è registrata nel 2024 a Napoli e Bari, Roma e Milano. Che raccontano anche della facilità di procurarsi un’arma con pochi soldi, su internet o nei supermarket del crimine aperti tutto il giorno nei vicoli delle città.
È stato anche l’anno, l’ennesimo, delle storie di liti per futili motivi che si trasformano in omicidi. Come quella di Arcangelo, 18 anni, morto dopo che è partito accidentalmente un colpo dalla pistola di un amico mentre la stava maneggiando. Oppure quella Santo, 19 anni, che è morto dopo una lite per una scarpa pestata accidentalmente. O come Giovanni “Giò Giò” Cutolo, un giovane musicista di 19 anni che fu ucciso con tre colpi di pistola per motivi futili legati a un litigio per uno scooter parcheggiato male.
Il 2024 è anche l’anno delle rivolte giovanili nelle carceri italiane, mai così affollate a causa dell’inutile decreto Caivano. A parte il cordoglio, le polemiche sterili e gli annunci del giorno dopo, dalle istituzioni non c’è alcuna idea di politiche sociali per migliorare la condizione dei giovani in Italia. Ma solo repressioni e nuove leggi che aumentano le pene. E avanti così, fino al prossimo caso di cronaca nera.
“Abbiamo una Banca”
Soldi pubblici a società legate alla ‘Ndrangheta: il caso Banca Progetto
24 ottobre 2024
“Secondo me, se Banca Progetto prendeva il mio nome e cognome, faceva una … diceva ‘lasciamo stare tutto'”. Così dice in un’intercettazione Maurizio Ponzoni, imprenditore ritenuto vicino ad una cosca della ‘ndrangheta. Avrebbe ottenuto, attraverso società a lui riconducibili, quasi 10 milioni di euro di finanziamenti con garanzia statale da Banca Progetto spa tra il 2019 e il 2023 senza alcun controllo previsto dalla normativa anti riciclaggio.
Come faceva Ponzoni a ricevere questi finanziamenti? Facile, secondo il Tribunale di Milano: aveva un rapporto diretto con i funzionari della banca che avevano ben chiaro che dietro le società finanziate c’era lui e che tuttavia autorizzavano prestiti e finanziamenti. Un sistema rodato nei confronti del quale non era stato attivato nessun controllo nonostante Ponzoni già in passato era stato coinvolto in un’inchiesta sulla ‘ndrangheta del Varesotto.
“Il denaro ottenuto è stato distratto per essere cannibalizzato dalla compagine criminale che ne ha ricavato ingenti guadagni” grazie a una “condotta agevolatoria” della Banca “anche a costo di instaurare stabili rapporti con soggetti inseriti a pieno titolo in circuiti criminali di rilevante spessore e contigui a realtà mafiose” scrivono i giudici del Tribunale di Milano. Una gestione “superficiale e sprovveduta” che non ha tenuto conto nemmeno dei rilievi della Banca d’Italia negli anni scorsi. Ora Banca Progetto (che precisa di essere “parte lesa” nella vicenda) è stata posta in amministrazione giudiziaria. La prima volta che accade in Italia per un istituto di credito. Pochi giorni più tardi Banca Progetto torna sulle cronache: tre persone (tra cui il fratello di un magistrato dell’antimafia bresciana) finiscono nei guai per truffa aggravata, bancarotta e autoriciclaggio. Un (doppio) caso che farà ancora parlare di sé.
Il primo maxiprocesso alla mafia.
Dopo cento anni digitalizzati gli atti giudiziari
24 ottobre 2024
4 ottobre 1927 e 11 gennaio 1928. Sono due date fondamentali della storia del contrasto alla mafia nel nostro Paese. Segnano l’inizio e la fine del primo maxiprocesso celebrato contro la criminalità organizzata in un tribunale siciliano. Il processo di Termini Imerese venne celebrato in una chiesa all’interno del vecchio Tribunale, per l’occasione adattata ad aula, capace di poter ospitare un alto numero di imputati, familiari, avvocati e giornalisti.
Dopo quasi un secolo, grazie al lavoro durato anni dell’ordine degli avvocati di Termini Imerese e della Camera Penale, sono stati digitalizzati gli atti processuali che raccontano delle relazioni tra la mafia del feudo e i grandi proprietari terrieri con 164 imputati.
Il giudizio scaturì dal celebre “assedio della Città di Gangi”, l’operazione di polizia curata dal Prefetto di ferro, Cesare Mori, sulla criminalità che imperversava sulle Madonie. Ci furono sette ergastoli per i capi banda e numerose pene comprese tra i 30 e i 24 anni, oltre a pene tra i cinque e i dieci anni per l’associazione a delinquere semplice. La copertura mediatica del processo oltrepassò l’oceano, con titoli sulle prime pagine del New York Times e il Times di Londra. Come non perdere e valorizzare questo patrimonio? Tutti gli atti saranno presto disponibili sul sito dell’Ordine degli Avvocati di Termini Imerese.
La lotta alla mafia senza soldi
Taglio dell’80% dei fondi per gli amministratori intimidi dalla mafia
14 novembre 2024
Ottantapercento. Questa è la percentuale del taglio del fondo destinato agli amministratori locali vittime di intimidazioni, previsto nella manovra finanziaria presentata dal Governo Meloni. Si passa da 6 milioni a poco più di un milione.
Secondo l’Osservatorio del ministero dell’Interno sul fenomeno degli atti intimidatori ad amministratori locali nella prima parte del 2024, a livello nazionale, si registra un inquietante aumento di circa il 27% degli eventi di minaccia, con ben 327 episodi di intimidazione, a fronte dei 258 censiti nella prima metà dello scorso anno.
Secondo una ricerca di Avviso Pubblico, dal 2010 ci sono stati 5.400 casi in Italia, con una media di quasi 400 episodi l’anno in 1.616 borghi o città, il 20% del totale dei comuni italiani. Inoltre, nella manovra, sono stati azzerati gli aiuti per i comuni sciolti per mafia, in precedenza pari a 5 milioni.
Dal 1991 ad oggi sono stati sciolti per mafia 394 enti locali e 21 sono i Comuni in gestione straordinaria a seguito di scioglimento.
Un brutto segnale dal Governo per gli amministratori. Intimiditi e mazziati. E la speranza di un dietrofront in extremis.
Legami inconfessabili
Delitto Vassallo, l’accordo tra il Carabiniere e la Camorra dietro l’omicidio del sindaco-pescatore
20 novembre 2024
Aveva scoperto un traffico di droga della camorra con il coinvolgimento di uomini dell’Arma dei Carabinieri e voleva denunciare tutto in Procura. Sarebbe questo il movente dell’omicidio di Angelo Vassallo, il sindaco-pescatore di Pollica, in provincia di Salerno, avvenuto il 5 settembre 2010 e rimasto sinora un mistero.
Dopo 14 anni a novembre c’è stata una svolta con l’arresto dell’ufficiale dei carabinieri Fabio Cagnazzo, il figlio del boss nonché collaboratore di giustizia Romolo Ridosso del clan di Scafati Loreto-Ridosso, l’imprenditore Giuseppe Cipriano e l’ex brigadiere dell’Arma Lazzaro Cioffi.
Il boss Ridossi ha riferito agli inquirenti che a sparare ad Angelo Vassallo sarebbe stato Lazzaro Cioffi, ex carabiniere già condannato per stupefacenti.
In questi anni, il colonnello Cagnazzo avrebbe messo in campo false piste, a partire dalle prime ore dopo l’omicidio, come quella di un pusher brasiliano e la lite con un titolare di un albergo della cittadina. Tutto questo per coprire il traffico di droga organizzato al porto di Acciaroli dal clan Cesarano di Castellammare di Stabia, Pompei e Scafati.
Una situazione torbida, fatta di malaffare e patti inconfessabili tra uomini dello Stato ed esponenti della Camorra. E una cittadina che con il suo sindaco pescatore ha visto morire anche un’idea diversa e nuova di politica.
Suor ‘Ndrangheta a Brescia.
Il caso di Anna Donelli
5 dicembre 2024.
“Se ti serve qualcosa dentro è dei nostri”. Così veniva descritta Suor Anna Donelli, religiosa di Brescia, in una conversazione tra detenuti in carcere nella Leonessa d’Italia. La 57enne prestava servizi come volontaria nel carcere di Brescia e in quello di San Vittore. Secondo la maxi operazione della Procura di Brescia del 5 dicembre, che ha portato all’arresto di 25 persone vicine alla ‘ndrangheta, per associazione mafiosa, estorsioni, traffico di armi e droga, riciclaggio e scambio elettorale politico mafioso, la religiosa avrebbe trasmesso “ordini, direttive, aiuti morali e materiali ai soggetti sodali o contigui al sodalizio reclusi in carcere”.
Questi erano “informazioni utili per meglio pianificare strategie criminali di reazione alle attività investigative delle Forze dell’ordine e dell’Autorità giudiziaria” e si proponeva anche per favorire “lo scambio informativo tra i detenuti e i loro prossimi congiunti nel caso di divieti di colloqui”, al punto di porsi come risolutrice di “dissidi e conflitti tra i detenuti all’interno del carcere”.
L’arresto di suor Anna è stata un fulmine a ciel sereno e ha suscitato molti dubbi tra gli operatori nelle carceri italiane. Spesso in tv, la religiosa era diventata un punto di riferimento per analizzare la realtà carceraria e giovanile. Di recente una trasmissione televisiva aveva raccontato la sua esperienza nelle carceri e anche la sua abitudine a far da arbitro di calcetto nelle partite tra detenuti tanto da essersi guadagnata l’appellativo di “Collina”, dal cognome del più celebre degli arbitri italiani. (Per) ora dalla Procura di Brescia è arrivato il fischio finale.