Se le questioni aperte le risolvi sfoderando la pistola, è normale che qualcuno finisca ammazzato. Non c’è da stupirsi, soprattutto se lasci che questo sistema esista, se approfitti ipocritamente dei “benefici” economici e sociali introdotti dalle organizzazioni criminali nelle nostre città. Quel potere si tiene in equilibrio così e un colpo di pistola è solo una banale controndicazione. Così anche la scorsa notte a Ponte di Nona, uno dei mille non luoghi alla periferia est di Roma, è finito in tragedia quello che i media amano chiamare un regolamento di conti. Sono stati uccisi il 35enne Fabrizio Ventre e il 26enne Mirko Scarozza, entrambi pregiudicati, entrambi con precedenti (anche) per droga. Tra l’incredulità degli abitanti del quartiere, il dolore di parenti e amici, nel silenzio generalizzato (persino dei “dichiaratori” di professione), in queste ore i carabinieri lavorano per ricostruire cosa sia davvero accaduto. Si deve capire perché i due fossero lì ed è tutt’altro che chiara la dinamica dei fatti: non si esclude che si possano essere uccisi l’un l’altro – in un confronto armi in pugno simile a un duello del “vecchio west” – e fa riflettere che sul posto non siano state trovate armi, segno che qualcuno ha ripulito la scena del crimine.
Quale che sia la dinamica (oggi ci sarà l’autopsia), quali che siano le ragioni di questo duplice omicidio, per la Capitale è l’ennesimo momento della verità: a Roma si spara, e a morire troppe volte sono i giovani, spesso i giovanissimi. Che abitano periferie senza servizi e vivono vite in cui le opportunità, i soldi, il welfare le danno le organizzazioni criminali, le mafie. Uno scenario già noto in tante città d’Italia, sempre più diffuso e dal quale diventa ogni giorno più difficile sottrarsi per migliaia di persone. Anche a Roma.
Perché, anche se è forte la tentazione di pensare che siano “affari loro” o che sia “peggio per loro”, non è un caso isolato quello della scorsa notte. Nella Capitale, solo negli ultimi mesi, altre volte le pistole hanno sparato contro giovani, a volte giovanissimi. Mettere in fila pochi fatti di cronaca rende l’idea di un fenomeno preoccupante. I tre ragazzi (due minorenni) gambizzati nello stesso agguato di aprile a San Basilio, i due feriti del primo maggio a Torrenova (il più piccolo aveva appena 14 anni), il 18enne vittima di un agguato sulla porta di casa a Tor Bella Monaca ancora a maggio. O la scoperta che sono giovanissimi i capi di tantissime piccole organizzazioni che spacciano tra San Basilio e Tor Bella Monaca, Torre Angela e Centocelle, Magliana e Primavalle. Al servizio delle mafie, che portano a tonnellate la droga in città e che con la droga – la prima industria italiana – controllano il territorio e ci fanno i soldi veri. Basti pensare che solo nel 2014 le forze dell’ordine hanno sequestrato oltre centomila chili di stupefacenti – tra cocaina, eroina, hashish e marijuana – per un valore di 1 miliardo e 745 mila euro. Inutile provare a quantificare quanta droga sia rimasta sul mercato, quanta sia stata introdotta nell’economia legale (come dimostrano decine di inchieste), quanta sia stata usata per pagare “stipendi” e fare l’assistenza ai più poveri nelle periferie, quanta sia stata utilizzata per riempire le tasche di professionisti avidi e imprenditori in difficoltà, per alimentare l’usura.
Può essere utile però ragionare di come i soldi della droga – nel silenzio generale – stiano cambiando i connotati delle città, gli equilibri nell’economia, i rapporti sociali, la percezione della sicurezza dei cittadini che in alcune zone si sentono ostaggio degli spacciatori, come accaduto ancora a Roma a Tor Bella Monaca, dove i pusher avevano cambiato le serrature delle porte degli appartamenti e i residenti dovevano chiedere il permesso anche per entrare in casa, come accade – solo per fare qualche esempio – in alcune strade del Pigneto o dentro alcuni cortili di Tor Pignattara. E può essere utile anche provare a ragionare sul destino di tantissimi ragazzi, vittime della logica e del potere dei clan, del linguaggio delle armi. Da Nord a Sud. Che siano rampolli di famiglie “di rispetto”, come ci insegnano la storia della ‘ndrangheta o di Cosa nostra, o come accaduto in Lombardia, dove poche settimane fa fuori da una discoteca hanno tentato di uccidere il 23enne Ludovico Muscatello, nipote prediletto del patriarca Salvatore, considerato il boss di Mariano Comense. Che siano membri delle gang di origine sudamericana che si fronteggiano in alcune periferie milanesi o giovani incensurati, come il 28enne ferito a Bari pochi giorni fa. O che siano vittime di un misto di violenza e spavalderia, come il 18enne di Catanzaro Marco Gentile che sarebbe stato ucciso da un suo coetaneo per non avere pagato un debito di dieci euro, il costo di una canna. Per non parlare di Napoli, dove da mesi è in corso una faida tra clan in cui i boss, i killer e le vittime sono tutti poco più che adolescenti.
Una vera e propria mattanza di ragazzini, di cui nessuno sembra volersi occupare davvero. Per incapacità, incoscienza, cinismo. Perché la politica e le classi dirigenti hanno “benaltre” preoccupazioni e ragioni di scontro, perché le associazioni cercano (e ancora non trovano) una nuova funzione ed efficacia, perché i cittadini pensano che in fondo questi morti siano altro da loro. O forse nella speranza diffusa e inconfessabile che prima o poi la smetteranno da soli di ammazzarsi. E tutti potranno comodamente tornare a pensare che, in fondo, un omicidio è l’effetto collaterale necessario di un sistema economico, sociale e criminale immutabile.
Danilo Chirico, L’Unità, 28 ottobre 2015