“Roma e provincia hanno costituito meta di importanti personaggi della mafia, della ‘ndrangheta e della camorra, che hanno stabilito collegamenti con esponenti della malavita romana e con faccendieri legati ad alcuni settori del mondo economico e finanziario. (…) L’enorme liquidità di cui dispongono i trafficanti (di droga, ndr) ha prodotto collegamenti internazionali sempre più fitti e contatti con settori dell’imprenditoria e della finanza per il reinvestimento dei capitali accumulati (…) Certamente non giova all’azione di repressione la tradizionale “riservatezza” del sistema creditizio anche nei confronti dell’autorità giudiziaria e l’insufficienza degli apparati di prevenzione. (…) Certamente “a rischio” è il settore immobiliare (…) Un altro settore che richiama l’attenzione delle associazioni è quello dell’industria alberghiera. (…) L’attività di reinvestimento dei capitali illeciti ha prodotto un aggrovigliato intreccio di interessi dal quale emerge la preoccupante dimensione dell’inserimento criminale nell’economia. (…) I personaggi malavitosi si avvalgono, per la gestione delle attività imprenditoriali e commerciali, della collaborazione di professionisti esperti nei rispettivi settori. (…) Certe operazioni vengono seguite e consigliate da impiegati e funzionari di banca (anche di elevata collocazione), che vengono compensati con costosi regali e con favori di ogni genere.
Gerardo Chiaromonte, presidente commissione parlamentare Antimafia (1991)
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“La situazione dei servizi pubblici è vergognosa e per sopravvivere è obbligatoria la raccomandazione. Sembra quasi che i politici lascino degradare i servizi in modo da rendere obbligatorio il ricorso alle loro clientele. Sì, a Roma questo indegno sistema delle raccomandazioni sembra fatto apposta per alimentare un sistema “mafioso” di potere”
don Luigi Di Liegro, presidente Caritas (1989)
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“A Roma ci sono illeciti forse più inquietanti che in altre città, e che hanno impressionato anche me”. “Le mafie le vediamo tutti, anche se non è facile che si traducano in atti giudiziari”
Giuseppe Pignatone, procuratore della Repubblica di Roma, (2012)
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“I settori in cui la mafia investe i suoi capitali sono soprattutto l’edilizia, le società finanziarie e immobiliari e – nell’ambito del commercio – l’abbigliamento, le concessionarie di auto e la ristorazione”.
Direzione nazionale antimafia, relazione annuale (2012)
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Cemento, droga, usura, gioco d’azzardo e riciclaggio. Sono soprattutto questi gli affari delle mafie, italiane e straniere, nella Capitale. Che i clan alimentano e fanno crescere da molti anni, come dimostrano le parole scritte nero su bianco da Gerardo Chiaromonte già nel lontanissimo 1991. Parole pesanti, eppure ignorate, non ascoltate, trascurate. Il risultato è che oggi a Roma le mafie sono presenti e ingombranti. “Stanno dovunque, li vediamo ogni giorno. Parlano, fanno incontri e affari a tutti i livelli”, dice un investigatore scuotendo la testa. E questo non perché ci sono le numerosissime gambizzazioni o i morti ammazzati. Piuttosto perché i clan sono entrati nel tessuto economico e sociale della Capitale. Qui operano con grande disinvoltura ed efficacia grazie a complicità importanti e decisive nel mondo delle professioni, dell’imprenditoria, persino dentro le banche o dentro le sacre pareti dei tribunali. Un coacervo di relazioni e interessi che rischiano di cambiare per sempre i connotati della città. A cui quasi nessuno sembra fare caso. La politica che mette ai margini o silenzia il tema (come è avvenuto in questa campagna elettorale), la società civile che tende a considerare lontano il problema, il mondo dell’economia che non sente l’odore dei soldi.
Ecco perché occorre innanzitutto fare uno sforzo di conoscenza (anche da parte degli apparati investigativi e giudiziari che in questi anni hanno accumulato ritardi impressionanti e su cui finalmente si sta lavorando) perché nessuno oggi davvero sa cosa accade in città ai livelli più alti, ecco perché occorre uno sforzo di consapevolezza da parte di tutti. Con una raccomandazione, che vale per il governo nazionale e che deve valere per tutti: serve coerenza e linearità nei comportamenti e soprattutto una piena e chiara assunzione di responsabilità. Il governo Letta – che non aveva messo tra le proprie parole d’ordine la lotta alle mafie – ha nominato una commissione di esperti (magistrati e funzionari) che dovrà elaborare proposte in tema di lotta, anche patrimoniale, alla criminalità. Qualunque contributo è importante, purché non sia l’ennesima commissione che libera la politica dalle proprie responsabilità: le scelte sono innanzitutto politiche. E non aiutano le parole del ministro della giustizia Cancellieri che sostiene che nuove norme sulla corruzione non sono una priorità del suo dicastero.
In generale, si può dire che la storia d’Italia – attraversata dalle mafie sin dalla sua fondazione, che è costretta a processare se stessa – ha dimostrato che fingere di non vedere o fare antimafia a giorni alterni non è mai servito. Da Sud a Nord. Non servirà neanche questa volta. Per questo l’associazione daSud ha scritto questo dossier, per questa ragione mette insieme nomi, storie e inchieste e le mette dentro un quadro unico dentro il quale vanno letti tutti i fatti criminali.
IL NEGAZIONISMO E IL PRIMO 416 BIS – E’ un tabù l’associazione mafiosa nella città di Roma. Tanto che mai la Banda della Magliana ha subito una condanna per 416 bis. Ci sono personaggi considerati mafiosi a Napoli o Reggio Calabria che nella Capitale sono “criminali comuni”. Così se sono ben 279 i procedimenti aperti dalla Dda nel 2012, solo per 17 si ipotizza il 416 bis. Perché, secondo quanto previsto dal Codice penale, in tutti gli altri casi, mancherebbero tre elementi essenziali per alzare il grado dell’accusa: la forza di intimidazione, la condizione di assoggettamento e il vincolo di omertà. In realtà, confidano alcuni investigatori, “esiste un problema di cultura giuridica e investigativa che dobbiamo poco per volta risolvere”. E questo anche perché, come sostiene il sostituto procuratore antimafia Diana De Martino, è in atto un “innalzamento del livello criminale e dell’indice di penetrazione”. Ha raddrizzato il senso comune anche Pignatone: “E’ vero, Roma non è come Palermo o Reggio Calabria, ma questo non significa niente, le mafie non si misurano con il bilancino”. Non è una questione di punti di vista, ma di fatti e di numeri. A cominciare da quelli sulle operazioni bancarie sospette: 3.354 a Roma quelle che ha contato l’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia nei primi sei mesi del 2012; 881 in più rispetto allo stesso periodo dell’anno predente, quando già la Capitale si attestava in pole position. Ci sono poi i blitz della Guardia di Finanza che nel 2011 ha sequestrato beni di provenienza mafiosa per 1,1 miliardi di euro. Duecentonove quelli immobili confiscati nello stesso anno e che fanno piazzare Roma al quarto posto in Italia, preceduta da Motta Sant’Anastasia (in provincia di Catania) e seguita da Lamezia Terme. La svolta, forse, è iniziata il 16 novembre 2012, quando per la prima volta nella storia, un gruppo criminale operante nel Lazio (e legato al clan dei Casalesi) viene condannato al 416 bis. “Questa decisione darà nuovo impulso alle indagini antimafia già in corso nel distretto di Roma”, assicura il procuratore Giuseppe Pignatone.
CITTA’ PORTO DI CLAN E DI LATITANTI – Una città complessa Roma, porto di clan. “In tanti nel tempo hanno deciso di vivere qui” diceva il prefetto Giuseppe Pecoraro nel 2011. Se le cose stanno così, dagli anni Sessanta con Frank Coppola che arriva a Pomezia e finisce per impadronirsi di parti dell’Agro romano. Passando per la famiglia calabrese dei Morabito da più di cinquant’anni nel quartiere San Basilio, meta ambitissima anche per i camorristi. Fino agli anni Settanta quando Cosa Nostra manda nella Capitale uno dei suoi uomini migliori, Pippo Calò, per stringere accordi con la Banda della Magliana. Negli stessi anni, arrivano pure le famiglie ‘ndranghetiste De Stefano, Mammoliti e Piromalli. E con loro fiumi di eroina e cocaina. Si deve stare proprio bene a Roma, perché nessuno è mai andato via. Hanno preso la residenza in zona Flaminia le ‘ndrine di Africo Nuovo (in provincia di Reggio Calabria), i Bruzzanti e i Palamara. Nunzia Graviano, sorella degli stragisti di Cosa Nostra, gestiva il bar Diapason in via Tripolitana. Altra cosa rispetto ai locali lussuosi delle ‘ndrine Alvaro e Gallico che hanno conquistato i locali del centro storico o quartieri d’elite come Coppedè e i Parioli. Fa chiarezza la relazione antimafia 2012 dove De Martino parla di “presenza non occasionale” di noti personaggi criminali, una “circostanza che deve necessariamente essere correlata all’esistenza di una rete di fiancheggiatori, di una cellula del clan di appartenenza”. Come pure dimostra “in modo eclatante – si legge nella relazione – l’arresto sul territorio laziale di alcuni importanti latitanti, grazie a un ‘dispositivo criminale’ capace di garantirgli la clandestinità”. Sono caduti nelle maglie delle forze dell’ordine, solo nell’ultimo periodo, personaggi come Umberto e Francesco Bellocco del clan imperante a Rosarno. Solo una questione di residenza, secondo Pecoraro. “Di affari” invece per Pignatone.
ECONOMIA MODELLO CLAN –Questo il quadro tracciato dalla Dna lo scorso dicembre. “Ristoranti, bar e caffè vengono acquisiti da società di nuova costituzione, spesso con capitali sociali esigui, che fungono da schermo dei gruppi mafiosi”, sostengono i magistrati. E spiegano anche il metodo dei clan: “La necessità di mimetizzarsi per infiltrarsi nel tessuto economico induce le organizzazioni criminali ad avvalersi di una serie di personaggi conniventi che, ricavandone imponenti utilità, mettono al servizio dei clan la loro professionalità”. Significa cioè che le mafie sono pronte “a instaurare stabili relazioni con imprenditori, professionisti, esponenti del mondo finanziario ed economico servendosene ed alimentando quel circuito di relazioni che ne potenzia l’operatività”. Un modello economico sempre più diffuso e relazioni pericolose vecchie e nuove mai del tutto chiarite.
Come quelle tra banche e criminalità. Tra cui, da sempre, c’è una certa consuetudine. Lo dimostra la storia infinita di un big come Enrico Nicoletti, uomo dalle relazioni altolocate con banchieri, imprenditori e alti prelati, passato alla storia come il cassiere della Banda della Magliana. Sono di Nicoletti i rapporti intensi con l’agenzia di piazza Montecitorio della Cassa di Risparmio di Rieti, grazie ai quali riuscì ad acquistare la villa che oggi ospita la Casa del jazz. Storie che si ripetono. Altrimenti non sarebbe stata possibili alcune vicende di personaggi legati alle famiglie Saccà e Frisina. Sbarcati a Roma nel 2000 senza una lira in tasca – o almeno così risulta dai loro resoconti contabili – finiscono ben presto nei salotti buoni. Tutto inizia grazie ad alcune leve che riescono a muovere nel mondo delle banche. Un uomo, incensurato, considerato una testa di legno dei clan nel 2011 riesce a ottenere un mutuo da 235 mila euro (chi ha dato le garanzie?) nonostante abbia dichiarato redditi pari a zero tra il 2004 e il 2010. Così i due coniugi si rivolgono agli sportelli della Banca delle Marche portando con sé una dichiarazione dei redditi che “risulta al di sotto della soglia di povertà” e – operazione paradossale – chiedendo un prestito di 292 mila euro ne ottengono uno da 350 mila euro. Sessantamila euro di più. In nessuno dei due casi dalle banche vengono segnalazioni per operazioni sospette per violazione della normativa antiriciclaggio. Neppure il notaio segnala l’anomalo acquisto delle case. Da queste operazioni parte la scalata che porterà all’acquisto di diverse società e a nascondere milioni di euro di denaro sporco. Il gip Simonetta D’Alessandro evidenzia che emerge “la strutturale attitudine intimidatrice del denaro capace, in astratto, di consentire il controllo di settori economici, con ogni conseguente distorsione di mercato”.
I calabresi Frisina e Saccà non hanno fatto altro che riproporre lo schema che aveva già fatto la fortuna degli Alvaro (a cui sono legati) sbarcati nella Capitale per fare i loro affari e che ben presto sono riusciti a controllare locali storici come il Cafè de Paris o il George’s: un impero – confiscato – da 200 milioni di euro costruito grazie alla compiacenza di famosi notai, istituti bancari e agenzie d’assicurazioni. E tra i locali che sono finiti, secondo gli investigatori (i provvedimenti non sono definitivi) in mano alla ‘ndrangheta ci sono il bar “Clementi” di via Gallia, il bar “Cami” di viale Giulio Cesare, il “Time out Cafè” di via di Santa Maria del Buon Consiglio, il bar “California” in via Bissolati, il ristorante “Federico I” in via della Colonna Antonina, il bar “Pedone” al Tuscolano.
E un altro pezzo pregiato della città era finito in un giro che molto aveva a che fare con la ‘ndrangheta: il teatro Ghione, a due passi dal Vaticano. E che, secondo l’accusa, era uno dei fiori all’occhiello dell’impero di un narcotrafficante, arrestato nel 2010 per traffico internazionale di cocaina. Ha fatto tanti soldi con imprese edili, immobiliari, un’agenzia di servizi aeroportuali, rifiuti e col commercio d’automobili. E con rapporti importanti come quello con la cosca Pelle di San Luca che a Roma ha messo le sue pedine nei posti chiave e tiene un filo aperto con i salotti buoni della città. Le mafie stanno anche sullo sfondo delle indagini che hanno riguardato il famoso Madoff dei Parioli, il consulente finanziario Gianfranco Lande accusato di aver ingannato un migliaio di risparmiatori della Roma bene sottraendo loro oltre 170 milioni di euro. Per Lande sono già arrivate due condanne in primo grado. Tra i suoi clienti anche alcuni uomini in odore di ‘ndrangheta che hanno portato qualche milioncino di euro da sotterrare e far fruttare. Ancora da chiarire in sede processuale l’inchiesta che vede imputati per associazione a delinquere finalizzata alla frode, il presidente di Assonautica Cesare Pambianchi (ex presidente di Confcommercio) e il suo socio Carlo Mazzei. Un processo in cui Equitalia è parte civile, e che coinvolge 46 persone tra professionisti e prestanome. Secondo i magistrati, avrebbero aiutato gruppi finanziari in stato prefallimentare trasferendoli fittiziamente all’estero.
POTERE NERO – Dal centro di Roma a Ostia, uno dei luoghi in cui le mafie sono più presenti e dove le commistioni e le complicità sono emerse con più forza negli ultimi anni. Basti ricordare le denunce di Tano Grasso, presidente onorario della Federazione antiracket: “A Ostia non operavano rubagalline ma organizzazioni criminali chiaramente proiettate in una prospettiva mafiosa”. Parole che fanno riferimento alle intercettazioni pubblicate qualche anno fa tra l’imprenditore nero, amico dell’ex sindaco Gianni Alemanno, Gennaro Mokbel e don Carmine Fasciani, considerato il ras di Ostia. Secondo i carabinieri del Ros, Mokbel aveva avuto da Fasciani il “permesso” per la sua campagna politica. I rapporti di Mokbel sono trasversali: le cronache raccontano che conosce molto bene l’ex Nar Massimo Carminati, presunto braccio della Magliana a piede libero nella Capitale e tutt’ora potentissimo secondo gli investigatori. E ha contatti con le forze dell’ordine: i suoi autisti sono due agenti e per “sentinella” invece può contare su un uomo della Direzione Investigativa antimafia di Roma. Riesce perfino a iscrivere illegittimamente l’ex senatore Pdl Nicola Di Girolamo nella circoscrizione Estero. Con l’aiuto della cosca Arena di Crotone e di un imporante avvocato romano.
Anche l’ex sindaco Gianni Alemanno resta coinvolto in storie di potere nero e criminalità. Non ha nessun procedimento a suo carico, ma una lunga lista di amicizie imbarazzanti. Scoprire che l’ex consigliere regionale calabrese Francesco Morelli aveva a che fare con la ‘ndrangheta “è stato un trauma” dice Alemanno nell’aula del processo milanese sulla “zona grigia” che avrebbe fiancheggiato il clan Valle-Lampada, “pensavo fosse un amico e invece era un nemico”. Il presunto boss Giulio Lampada, Alemanno lo avrebbe invece conosciuto durante una festa. Lui non lo nega: “Se era il giovane che ricordo, Morelli me lo presentò come persona emergente e brillante” risponde Alemanno. Piovono ombre sull’ex amministrazione capitolina anche quando viene arrestato Ambrogio Crespi, titolare di numerose società di comunicazione che operavano su Roma e fratello dello spin doctor di Gianni Alemanno, Luigi Crespi. Ambrogio, insieme alla ‘ndrangheta, avrebbe mosso un pacchetto di 2500 voti in favore dell’assessore della Regione Lombardia Domenico Zambetti. L’ex sindaco scivola nell’imbarazzo pure dopo l’arresto di Fabio Giannotta, fratello di un altro suo fedelissimo, Mirko, ex capo dell’ufficio decoro urbano del Comune. Secondo gli inquirenti, Fabio è il proprietario dell’arsenale scoperto nel quartiere Alessandrino. In mezzo ci sarebbe la pistola che avrebbe ucciso Emiliano Zuin nel 2008. D’altronde i fratelli Giannotta hanno un passato discutibile, e nel 2005 patteggiano una condanna per una serie di rapine a banche e gioiellerie. Fabio in particolare non perde il vizio, perché dietro alla vetrina di Bulgari, sfasciata da un carro attrezzi nel 2008, c’è anche lui. Sangue nero quello che scorre nelle vene dei Giannotta, figli di Carlo che è responsabile dell’ex sede dell’Msi di Acca Larentia e accusato di aver gambizzato (a gennaio 2012) l’ex Nar assunto all’Atac Francesco Bianco.
Meno sprovveduta la consigliera comunale ed ex vicesindaca Sveva Belviso. A luglio 2012 finisce nella bufera per aver assunto come consulente esterno alle Politiche sociali Maurizio Lattarulo, detto ‘Provolino’, ex Nar ed ex sodale del boss De Pedis. Ma l’assessora risponde: “Mi ha colpito per il suo straordinario impegno sociale”. Alemanno in quel caso preferisce stare in silenzio. Non era stato un buon anno per lui. Aveva dovuto digerire lo scandalo delle mazzette ai vigili, quello dei Punti Verde Qualità e l’accusa all’ex vicepresidente del consiglio comunale Samuele Piccolo (tornato libero) per associazione a delinquere e finanziamento illecito ai partiti.
LE COMPLICITA’ – A volte poi le complicità arrivano addirittura dentro i palazzi di giustizia. È tornato libero da pochi giorni Roberto Staffa, il pm arrestato lo scorso 23 gennaio con l’accusa di aver fatto dei favori a degli indagati in cambio di rapporti sessuali avuti negli uffici della procura con sei transessuali. E se il suo legale oggi dice che “molte delle accuse sono state messe in dubbio”, restano da chiarire i contorni di questa vicenda inquietante. Tra i molti reati contestati anche due favori (tra cui gli arresti domiciliari) per l’amante di una delle transessuali, Consiglio Casamonica, che era rimasto appena coinvolto in una maxioperazione antidroga.
Porta la toga anche il capo di un’organizzazione che, secondo l’accusa, “riciclava, in Italia e all’estero, denaro sporco frutto di illecite attività e commercializzava oro in assenza delle prescritte autorizzazioni”. Lui si chiama Franco Angelo Maria Debernardi e lavorava al Tar del Lazio. L’inchiesta della Guardia di finanza ha coinvolto trentatre persone, tra cui due carabinieri in servizio a Tor di Quinto e un gran numero di avvocati e tributaristi. Tra loro anche Gianni Lapis, in passato considerato prestanome dell’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino.
Un alto magistrato, Afro Masto, a lungo presidente di sezione della Corte d’appello di Roma, è indagato dalla Procura di Perugia per avere favorito il boss della mala romana Michele Senese, detto “O pazzo”. Il giudice (che era nel collegio che ha ridotto la condanna di Senese da 17 a 8 anni) è stato coinvolto nell’inchiesta in seguito alle dichiarazioni di un pentito (tuttora al vaglio) e sarebbe indagato perché, sollecitando delle perizie mediche, avrebbe di fatto favorito la carcerazione del boss nella clinica Sant’Alessandro invece che in carcere. Per gli investigatori, il magistrato avrebbe fatto da sponda a un gruppo molto affiatato – finito nel primo troncone dell’inchiesta – di cui farebbe parte anche Marco Cavaliere, avvocato di Senese, arrestato alcuni mesi fa insieme ad alcuni medici (uno psichiatra e un cardiologo, periti del tribunale di Roma e di Velletri), un medico dell’Asl Roma C e lo stesso proprietario della clinica Sant’Alessandro. A tutti è contestato il reato di corruzione e false perizie con l’aggravante dell’utilizzo di metodi mafiosi. Quello delle cliniche private e delle comunità terapeutiche come residenze alternative al carcere è un grande business della malavita romana e ha da tradizione grandi complicità.
Un meccanismo certo non perfetto ma molto molto efficace nella storia della Capitale. Uomini come Michele Senese, Damaso Grassi, Carmine Bongiorno e Roberto Pannunzi hanno alternato nella loro carriera periodi in carcere a ricoveri presso le più belle e comode cliniche romane. Non soltanto la Sant’Alessandro. Anche il Rome American Hospital e la Pio XI sono state negli anni al centro dell’attenzione degli inquirenti. E, più di recente, Villa Lauricella, la comunità terapeutica sulla Prenestina: un luogo controverso in cui, secondo un’inchiesta dello scorso anno, pagando 30mila euro era possibile andare a soggiornare abbandonando il carcere. La sicurezza a volte è anche gestita da società private su cui in troppi hanno espresso dubbi in questi anni. Come è accaduto per il colosso della security Sipro srl che è all’attenzione di politici e magistrati dal 2007 quando la prefettura di Roma gli ha negato la certificazione antimafia ritenendo “sussistente il pericolo di condizionamento da parte della criminalità organizzata”. Dopo il giudizio della prefettura, la Sipro si appella al Tar e ottiene l’annullamento del decreto prefettizio, ma in secondo grado (nel 2009) il Consiglio di Stato dà ragione alla prefettura. E se la società sostiene di avere le carte in regola e di avere “pieno possesso dei requisiti previsti dalla normativa legislativa antimafia vigente”, restano tutte le perplessità dell’Autorità per la Vigilanza sui Contratti pubblici (Avcp) a proposito del lungo rapporto con la Regione. Quale che sia la verità, i documenti dicono che i titolari di questa azienda portano un cognome pesante: Di Gangi. Sono i figli dell’imprenditore siciliano Salvatore Di Gangi che ha rilevato l’azienda nel 1994 direttamente dalle mani di un altro siciliano doc, Antonino Li Causi, tessera 526 della P2. Ma sono soprattutto i nipoti di Vittorio Di Gangi detto “er Nasca” che in passato avrebbe avuto rapporti con la Banda della Magliana.
IL BUSINESS MULTIETNICO DELLA COCAINA – Fiumi di droga, cocaina perlopiù. A Roma ogni giorno ne arrivano quantità inimmaginabili. Business miliardario a cui sarebbero legati gli omicidi del 2011 (almeno 11 su 33) e sistema criminale blindato dove ‘ndrangheta, camorra e “mala” romana sanno tenersi in equilibrio se conviene. E’ la ‘ndrangheta a fare da “cartello” con le organizzazioni criminali internazionali, sudamericani e messicani soprattutto, insieme alla camorra che storicamente è legata a doppio filo con i romani. In mezzo un fiume di “manovalanza”, e una stratificazione di ruoli che gli inquirenti non hanno ancora del tutto decifrato, con una grossa fetta giocata dalla violenza dei Casamonica.
Gli ultimi blitz antidroga parlano da sé. Il 14 giugno 2013 vengono arrestate 23 persone del clan Romagnoli e della cosca ‘ndranghetista dei Gallace. Un’alleanza che era riuscita a monopolizzare il mercato della cocaina. Anche grazie alle compiacenze di alcuni dipendenti dell’aeroporto di Fiumicino, snodo centrale per l’arrivo della droga. Come pure ha dimostrato l’operazione ‘Calma Piatta’ del 2012 (35 arresti): gli stupefacenti arrivavano dalla Colombia a Fiumicino, dove alcuni addetti allo scarico delle merci erano pronti a fare la loro parte. Ma questa volta l’affare era gestito da un’organizzazione criminale tutta romana: con i boss a San Cesareo, la base operativa a Cinecittà, il laboratorio chimico a Montecompatri e gli emissari a Monte Sacro, Monteverde, Appio ed Eur. Patto di ferro interregionale per la droga, invece, a Tor Bella Monca e al Laurentino: il 10 gennaio 2013 vengono arrestati dieci criminali tra affiliati al clan Schiavone-Noviello e uomini delle cosche calabresi. I capi erano il laziale Romano Micconi (secondo gli inquirenti legato alle ‘ndrine Gallace e Novella) e il campano Gennaro Magrì che viveva a Roma ed era in libertà vigilata.
Quello della droga è un affare multietnico e in evoluzione. Ne è l’esempio l’operazione coordinata dalla Dda il 29 marzo 2012: i carabinieri smantellano un’associazione che importava cocaina dal Perù. A capo c’era un romano doc di 32 anni, residente a Lunghezza. O ancora, l’indagine “Plata” che nello stesso anno ha portato a 31 misure cautelari: la rete criminale era capeggiata dal romano Nello Bolotti e dal trapanese Fortunato Stassi, da tempo trapiantato nella Capitale. Ma della squadra facevano parte anche albanesi, “a dimostrazione dell’integrazione che si verifica sul territorio laziale tra malviventi autoctoni e stranieri” sottolinea De Martino. Chi mette le mani sulla droga gestisce anche lo sfruttamento della prostituzione. Lo fa la criminalità albanese, abilissima pure nel commercio di armi, e quella nigeriana. Non ha un profilo decisionale nel mercato della droga, ma può contare su esperti corrieri , la criminalità rumena che secondo gli investigatori lavora per le organizzazioni albanesi, nigeriane e sudamericane.
Il prefetto Pecoraro su questo non si è mai nascosto dietro un dito: “Il mercato della droga è quello più fiorente”. Salvo poi aggiungere che “si tratta di piccole bande”. Piccole bande, forse, ma che a volte crescono. Come quella del “Pijamose tutta Roma”, sgominata con l’operazione Orfeo del 3 agosto 2011: un esercito che si era assicurato la gestione della cocaina nel quadrante est della Capitale, dal Tuscolano al Laurentino. Circa 5 milioni il valore dei beni che gli vengono sottratti. Briciole per chi riesce a vendere 30 kg di cocaina ogni mese, la stessa quantità sequestrata solo ad ottobre 2012 in tutta Roma. E’ nel 2008 che er Ciccio inizia a montarsi la testa, esattamente dopo l’arresto del suo “padrino” Michele Senese. Un evento di quelli che mette in subbuglio gli equilibri. E apre il fuoco. A cominciare dal 15 maggio 2008, con il tentato omicidio di Paolo Abate, uomo di Molisso. Il 7 luglio 2008 viene ucciso Emiliano Zuin. Il 13 agosto, invece, è lo stesso Giuseppe Molisso a salvarsi da un agguato. La scia di sangue non finisce più. Così il 12 dicembre a Velletri viene ucciso il gommista Luca De Angelis, amico e socio di Gabriele Cipollini, anche lui vittima di un agguato il 4 aprile 2009. Quattro mesi più tardi viene gambizzato Roberto D’Agostino, amico e socio di Cipolloni. Omicidi irrisolti, ma che secondo gli inquirenti vanno letti nel contesto del traffico di droga. Se lo aspettavano tutti. Era chiaro che la galera per Michele Senese avrebbe creato delle tensioni. Un uomo che non aveva mai spezzato il cordone ombelicale con il suo territorio d’origine (in particolare con i clan camorristi Licciardi, Contini e Mazzarella) ma che sapeva trattare con la ‘ndrangheta e che grazie alla cocaina era diventato re indiscusso di Roma est già dagli Anni 80. Poi mette le mani sul mercato delle auto, sull’usura, il gioco d’azzardo e gli appalti pubblici. Pare addirittura che i commercianti della Tuscolana spalancassero le porte quando Michele ‘O pazzo (dalle perizie psichiatriche che lo hanno salvato più volte dalla cella) doveva fare una telefonata “tranquilla”. Ma il Gip di Roma nel 2010 non se la sente di dargli il 416 bis. Nonostante la Dda di Roma, nel 2008, avesse ricostruito il legame tra i Senese e alcuni esponenti del gruppo storico della Magliana, come Emidio Salomone ucciso il 4 giugno 2009 ad Acilia. Così ‘O pazzo a gennaio 2013 è tornato libero, dopo l’ultimo periodo agli arresti domiciliari. Eppure si comporta come un latitante, tanto che ad aprile si era reso irreperibile.
GLI OMICIDI – Quella che si chiama “mala” e si legge mafia ha iniziato a sparare ben prima degli anni a cavallo tra il 2008 e il 2009. Almeno dal primo febbraio 1997, quando resta vittima di lupara bianca (in uno scontro tra calabresi e campani) un trafficante di droga come Salvatore Nigro, uomo vicino a Nicoletti. A incontrarlo per ultimo è l’imprenditore Umbertino Morzilli, anche lui in affari con Nicoletti e ucciso nel febbraio 2008 a Centocelle. Nel 2001 era toccato a Giuseppe Carlino, l’anno dopo al vecchio boss della Magliana, Paolo Frau, e a Michele Settanni. Nel 2007, un altro omicidio eccellente, quello di Gennaro Senese. Fino all’ottobre 2010, quando viene ucciso Giuseppe Criniti.
Una scia di sangue che porta dritti al 2011, l’anno in cui la pax salta dinuovo e non risparmia nessuno. Dall’omicidio di Angelo Di Masi il 19 gennaio al Prenestino. A quello del 20enne Carlo Ciufo il 23 gennaio a Corcolle. Il 5 luglio 2011 a Prati è la volta di Flavio Simmi (già vittima di un agguato), figlio di un gioielliere che ha avuto contatti con la Banda della Magliana. Qualche giorno dopo, il 27 luglio, tra Primavalle e Torrevecchia, quattro uomini in sella a due scooter uccidono Simone Colaneri. Ha sconvolto tutti l’omicidio di Edoardo Sforna, ucciso a soli 18 anni il 23 agosto a Morena davanti alla pizzeria dove lavorava, sostituendo un amico da appena una settimana. Secondo gli investigatori Edoardo sarebbe morto per errore. Quella sera si è trovato in mezzo a una guerra tra i Casamonica e “un gruppo criminale emergente” (i presunti esecutori dell’omicidio) per la supremazia nel controllo del mercato dello spaccio. Ma il quadro – nonostante gli arresti degli ultimi giorni – è pieno di ombre.
Il 22 novembre 2012 è ancora sangue. A due passi dal lungomare di Ostia vengono uccisi Francesco Antonini e Giovanni Galleoni, rispettivamente “Sorcanera” e “Bafficchio”. L’11 aprile due colpi di pistola contro l’imprenditore Roberto Ceccarelli, davanti al Teatro delle Vittorie. L’ha ucciso il 70enne Attilio Pasquarelli (reo confesso) per una storia “di soldi”. Ma entrambi avevano avuto rapporti con la Banda della Magliana, e la vittima in passato anche con il clan Tomasello di Catania.
Quello del 24 gennaio 2013 è un omicidio “eccellente”. In via della Castelluccia, tra San Paolo e l’Eur, viene freddato il 67enne Vincenzo Femia (che viveva a Montespaccato), genero del patriarca Peppe Nirta. La sua famiglia, che opera a Roma da almeno venti anni, aveva rapporti con la Banda della Magliana ed era stata coinvolta nel sequestro di Paul Getty III e nel mancato rapimento del campione Paulo Roberto Falcao. Lo ammazzano nello stesso giorno in cui la Dia sequestra beni anche nel Lazio a due imprenditori legati ai Tegano, una delle più importanti cosche della ’ndrangheta. Ventiquattro ore dopo un’operazione della Squadra Mobile che stana l’ennesimo asse Reggio Calabria-Roma per la droga. Di due anni più giovane Serafino Maurizio Cordaro, ucciso il 30 marzo 2013 nel suo bar in via degli Acquaroni, a Tor Bella Monaca. Uno di quegli omicidi che i romani stentano a comprendere, intanto che provano a fare i conti con il passato. E quello di Serafino sembra essere legato alla banda della Marranella, un’organizzazione criminale che negli anni Novanta si impose nel traffico internazionale di droga, nel gioco d’azzardo e nel riciclaggio.
IL CONTROLLO DEL TERRITORIO – Il tessuto economico di Roma è miele. Esiste il controllo dei mercati rionali, dei parcheggi, della ristorazione e dei paninari. Un sistema decennale che si avvale di forza lavoro occasionale e di personaggi intoccabili. Di gente che negli anni si è “ripulita” entrando in politica. Canali (e personaggi) diversi in periferia, dal gioco d’azzardo ai centri commerciali, fino alle grandi speculazioni edilizie e i rifiuti, ai compro oro che spuntano in città come funghi. Ciascuno, insomma, ha un pezzetto di città su cui comandare. Lo aveva detto già nel 2008 l’Osservatorio regionale per la Sicurezza e la Legalità che “non è esagerato parlare di forme di controllo di segmenti significativi del territorio”. E dal momento che nella Capitale i municipi sono città nella città, gestirli uno per uno non è semplice. Serve una rete di compiacenze allora, e qualche interlocutore nell’amministrazione locale. Così accade che il latitante calabrese Strangio, tre anni fa, arrivi indisturbato fino a una struttura sanitaria di Roma. Scortato da un ex consigliere municipale. Oppure che un ex assessore parli da boss navigato: “Quello se continua lo faccio fuori, tu lo sai che mio genero è un camorrista, me l’ha detto subito… quando serve…”. Poi s’è messa in mezzo la figlia che è “troppo sensibile”, ed è sfumata l’idea dell’esecuzione punitiva. Comunque l’ex assessore una pistola dentro il cassetto dell’ufficio la tiene sempre. “Non si sa mai”. Il controllo del territorio emerge anche in altre vicende. A San Basilio, per esempio, porto strategico e militarizzato dove la droga si vende in fila come al casello autostradale. Oppure nel VI Municipio (ex VIII), dove “senza il consenso di Enrico Nicoletti non si costruiscono “nemmeno le strade” dice un amministratore. Perché il cassiere della Banda della Magliana, dalla sua casa di Torre Gaia, la fa ancora da padrone. L’intoccabile 75enne non tradisce gli amici di sempre, i Casamonica e i Casalesi. Gli stessi che reclutano i fattori della droga, da Tor Bella Monaca a Ponte di Nona. Molti sono minorenni. “Negli ultimi anni è diventato sempre più difficile recuperarli, girano troppi soldi” racconta un’assistente sociale. Talmente tanti da fare una vita comoda e mantenere le loro famiglie. Spacciare insomma conviene. E denunciare genera una sorta di vergogna, perché nei quartieri ci si conosce quasi tutti. Ci sono poi le storie di estorsione e minacce. Ancora in VI Municipio, per mano dei Casamonica. Che il territorio lo controllano eccome: Romanina, Anagnina, Porta Furba e Tuscolana, fino ai Castelli Romani. E in stretta collaborazione con i Di Silvio, altro clan di origini rom. “Oh quelli menano forte” dice il proprietario di un banco alimentare costretto a portare la spesa al clan fino a casa. Gratis. Secondo la Dia è la struttura criminale più potente e radicata del Lazio, con un patrimonio stimato di 90 milioni di euro e almeno un migliaio di affiliati. E con la brutalità “attuano un controllo sistematico di varie strade” – si legge nella relazione della Dna 2012 – trasformandole “in una sorta di enclave”, al punto che anche la polizia giudiziaria “non riesce a svolgere i suoi compiti istituzionali”. Perché deve fare i conti con ritorsioni violente e “una rete di sorveglianza efficacissima” (le cosiddette sentinelle). Gli inquirenti dicono che con la loro “forza intimidatrice”, e minacce a “mano armata” i Casamonica estorcevano costosi lavori e forniture di “materiali di lusso” per decorare le loro ville “ai danni di artigiani”. Come è successo a Mehdi Dehnavi, marmista iraniano di 40 anni. Che invece del denaro pattuito per il lavoro viene malmenato e mandato in ospedale. Per i Casamonica anche importanti attività di usura e rapporti e affari con imprenditori (il romano Pietro D’Ardes) e affiliati alla ‘ndrangheta dei Piromalli-Molè e Alvaro.
LA CAPITALE DELL’USURA – L’usura è il reato più longevo e serve anche a controllare il territorio. Le denunce diminuiscono, ma aumenta il numero delle vittime (secondo Sos Impresa: 28mila commercianti usurati e un giro d’affari stimato in 3,3 miliardi di euro fanno del Lazio una delle regioni più colpite). Non c’è un solo clan che abbia rinunciato allo strozzinaggio non appena la figura del “cravattaro” di quartiere è passata di moda. C’è invece un’usura più “raffinata” che mira “a segare le gambe alle aziende fino a ridurle al lastrico e rilevarle” denuncia Sos Impresa. Passaggi di proprietà sempre più frequenti che falsano il mercato, diktat su forniture e fornitori, assunzioni obbligate. Come insegnano i clan.
Anche la criminalità cinese ha la licenza per le estorsioni, rigorosamente ai danni dei propri connazionali però. Un affare che gestiscono insieme a quello della prostituzione, dell’immigrazione clandestina, delle merci contraffatte e delle attività illecite connesse alle agenzie Money Transfer. La novità, secondo la relazione antimafia 2012, è che non sono più disposti a trincerarsi nella roccaforte Esquilino “ma si estendono alle zone Casilina, Tuscolana, Appia e in direzione Ostia Lido”.
Non solo imprenditori e commercianti. Nella rete dell’usura finiscono anche famiglie, pensionati, trentenni. Sotto strozzo qualcuno c’è finito per pagare le spese sanitarie: al Gemelli “gira lo stesso usuraio da anni”, racconta una vittima. All’Umberto I, è una storia vecchia di 15 anni, il “canale” è un infermiere. E fa male i conti chi, sconfortato dalle agonie giudiziarie, pensa di potersi liberare dagli usurai senza denunciarli. Giorgio (il nome è di fantasia) è riuscito a mandare in carcere cinque criminali. Lui e la moglie finiscono sotto strozzo per poche migliaia di euro. Gestisce una piccola attività commerciale in periferia, e un cliente abituale si offre di prestargli dei soldi. Accetta ma capisce presto che non è un benefattore. Il debito aumenta. Arrivano le minacce e i ricatti. “Non sai dove trovare i soldi? – gli dice l’estorsore – vendi questa merce”. E gli mette in mano un grosso quantitativo di droga. Giorgio il mestiere del trafficante non lo vuole fare, e denuncia. Le indagini scoperchiano un pentolone: non solo droga, il malavitoso ha centri scommesse e altre attività più o meno lecite. Un classico. È romano e millanta parenti e amici camorristi. Periodicamente volano botte da orbi, una volta anche lungo un tratto di strada dove è impossibile non vedere. Eppure nessuno parla. Sono anni da incubo. Quasi cinque prima di ritornare a vivere.
IL PIZZO PER STARE TRANQUILLI – Non si denuncia invece il pizzo. A Piazza Bologna c’è chi lo paga “per stare tranquilli” da più di vent’anni. Qualcuno addirittura lo consiglia perché “se è una cifra accettabile conviene”. Altrimenti può capitare che ti sfasciano la vetrina, come è successo in zona Borghesiana. Qualcun altro voleva aprire un locale a San Lorenzo, ma ha rinunciato quando gli hanno detto che è buona abitudine pagare il pizzo. A Torre Maura si stupiscono in pochi, il pizzo funziona, “i ladri qua non ci sono mai entrati”. Pare addirittura ci sia un po’ di concorrenza negli ultimi tempi, “di stranieri e pischelli”. Una sorta di vigilanza privata, lievitata insieme alla percezione di vivere in una città insicura. Un paradosso grottesco che ha creato il racket delle guardianie nei locali notturni. Assunzioni obbligate, per essere chiari. Così come esistono certi prodotti che vanno acquistati per forza, da quel preciso rivenditore. Nel regno del clan Fasciani e della camorra, a Ostia, il pizzo è una tassa pesantissima e fa la differenza nella stagione estiva. Una postazione balneare “tranquilla”, secondo i dati di Libera, può arrivare a costare 10mila euro. Tant’è che i “corto circuiti” sul litorale sono abbastanza frequenti. Colpa di “ubriachi e senza tetto” per i gestori di chioschi e ristoranti che giurano di non aver “mai ricevuto minacce”. Gli anni peggiori tra il 2009 e il 2010 con almeno cinque incendi di natura dolosa. Ma anche quello appena passato dà i suoi frutti: vengono avvolti dalle fiamme il Free Beach a Castel Porziano e trenta cabine dello stabilimento Battistini. Fino alla bomba rudimentale trovata al Capanno, nel cuore di Ostia, il 21 luglio. “Bisogna monitorare tutte le concessioni balneari” dice da anni l’ex deputato Pd Jean Leonard Touadì. E lo stesso deve essere fatto con le attività commerciali della ristorazione e dei bar. Perché nel XIII Municipio “c’è una consorteria criminale”. E’ un peccato che Touadì sia quasi in solitudine quando si tratta di leggere cosa si muove dentro Ostia. Perché le indagini gli danno ragione. Non solo i Fasciani e gli uomini della Banda della Magliana, ma anche il clan Cuntrera-Capuano e i Triasse (Cosa Nostra), passando per i Senese e il clan dei “Sandokan” (Camorra). Nomi fin troppo noti, da sempre e a tutti.
MAFIE E RADICAMENTO – Ne succedono di cose strane a Roma. Nascoste da una coltre di assuefazione. Diventa difficile capire, solo per fare un esempio, se un colosso della security abbia o meno la certificazione antimafia. Oppure accade che a fronte di un cospicuo numeri di immobili liberati dalle mafie, il direttore dell’Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata è costretto a denunciare in parlamento che l’Anbsc paga 295mila euro l’anno per stare in affitto in via dei Prefetti. Costi che potrebbero essere abbattuti definitivamente, se solo i locali di via Ezio al civico 12/14, confiscati alla camorra nel ’96 e ora occupati abusivamente, venissero sgomberati da un centro benessere, un’agenzia di assicurazioni e un’abitazione privata. Lontani anni luce dai “fini sociali” che imporrebbe la Legge Rognoni-La Torre.
Tutte le persone citate, salvo che diversamente specificato, sono da ritenersi innocenti fino a condanna definitiva.