Sessanta iniziative in due giorni, centoventi gruppi e associazioni a lavoro, migliaia di cittadine e cittadini per strada, attività in tutti i municipi, un nuovo protagonismo dei comitati territoriali, l’avvio di collaborazioni inedite, l’apertura di nuovi progetti condivisi. “Spiazziamoli – 50 piazze per la democrazia e contro le mafie”, l’evento che ha riempito Roma il 6 e 7 marzo, è stata la più importante e partecipata risposta a mafia capitale, ma soprattutto ha avuto il merito di mettere finalmente al centro della discussione cittadina gli affari dei clan e la corruzione, la speculazione edilizia e l’aggressione ai servizi sociali. Con un linguaggio nuovo, con punto di vista popolare e antimafia. Non era scontato nella città e nella regione in cui tantissimi hanno già digerito persino il fatto che l’ex sindaco di Roma (il primo cittadino, non uno degli ultimi) sia finito sotto inchiesta per 416bis o anche la scorta assegnata a un attuale assessore.
Cos’è stata Spiazziamoli
Già questo basterebbe per considerare “Spiazziamoli” una piccola grande rivoluzione culturale per Roma. La straordinaria partecipazione del 6 e 7 marzo ha dimostrato in maniera inequivocabile che c’è una larga parte di città che non accetta il silenzio eloquente o le frasi di circostanza della politica, la strategia del negazionismo e la derubricazione delle mafie a fatti minori, i convegni pasticciati e gli atti istituzionali inutili, che non vuole sentire parlare di “piccole bande” e “mele marce”, che considera inaccettabile il maldestro tentativo di difendere con l’inazione l’immagine della città o la triste prudenza di chi sceglie l’immobilismo perché forse teme gli schizzi di fango che seguono un’inchiesta. Una parte larga di città consapevole del radicamento dei clan, del consenso sociale di cui godono le mafie, della diffusione della corruzione e che osserva con preoccupazione i disagi e la privazione dei diritti a cui sono sottoposti i cittadini romani. E che comincia a comporre – tessera dopo tessera – il quadro criminale della città che se davvero si vuole comprendere va letto in maniera unitaria e sistematica.
Che si interroga e vuole cambiare le cose. “Spiazziamoli”, frutto di un lavoro collettivo iniziato subito dopo l’inchiesta Mondo di mezzo, è stata infatti un grande esperimento di partecipazione (finalmente riuscito), un esercizio di democrazia reale e dal basso (finalmente praticata e non solo evocata), una “bozza” di un nuovo modello di pratica antimafia, sempre più necessario, soprattutto dopo gli ultimi fatti di cronaca.
Un processo sociale innovativo che ha saputo intercettare una esigenza diffusa e che pure nessuno vedeva, ha messo in campo la fatica dell’incontro e del confronto, la generosità e la fiducia reciproca tra chi l’ha costruita, l’originalità del linguaggio (assemblee e dibattiti, biciclettate e camminate, sport e teatro, giochi di piazza e performance, sit in e pranzi), la condivisione reale di una piattaforma, la chiusura a ogni forma di adesione formale, l’apertura di uno spazio di discussione vero che, grazie a tanti e diversi, ha superato (in meglio) le stesse intenzioni dei primi promotori.
Ne è nata – a dispetto di ogni legittimo dubbio o strumentale diffidenza – una piattaforma di esperienze, idee, impegno, persone e passione civile che nessun progetto politico e sociale è oggi in grado di intercettare, ha messo al centro quella parte di mondo reale a cui purtroppo oggi nessuna istituzione è davvero in grado di parlare.
Da domani
“Spiazziamoli” è un processo che deve trovare forma e direzione e tutti quelli che l’hanno animato decideranno insieme se e come dargli gambe nel futuro: si vedrà quindi se vorrà o riuscirà a esercitare la sua funzione. Nulla è per fortuna già definito. Questo evento però segna comunque uno spartiacque: dopo le inchieste della magistratura e l’invasione di partecipazione del 6 e 7 marzo nessuno può più fingere di non capire cosa accade a Roma. E consapevoli che l’azione di contrasto alle mafie e le politiche per la sicurezza sono di competenza nazionale e che il lavoro di repressione e di indagine spetta ai magistrati e alle forze dell’ordine, tutti devono mettersi in gioco. Dentro una scelta precisa, che non sia né semplificatoria e non ceda spazio al giustizialismo d’accatto tanto di moda in quest’epoca: fare dell’antimafia e dell’anticorruzione gli elementi costituenti della seconda parte di questa consiliatura durante la quale Roma e il Lazio si accingono ad affrontare grandi sfide come il Giubileo straordinario, la corsa alle Olimpiadi (in modo che grandi investimenti e grandi opere siano un’opportunità vera per la città e non l’ennesima occasione per sprechi, corruzione, speculazione edilizia), il caso Ostia (con le dimissioni di Tassone e l’ennesima patata bollente in mano all’assessore alla Legalità Sabella) che non può essere certo affrontato nell’ambito ristretto del litorale o del partito, la progettazione della città del domani, con nuovi equilibri economici e un nuovo sistema di servizi alla persona.
Occorre allora un’immersione nella realtà: Roma deve guardarsi allo specchio con rigore, leggere i segni sul volto e le contraddizioni della sua anima, dire e dirsi la verità, svelare chi e come esercita il potere, assumersi la responsabilità delle scelte e delle non scelte. Un cammino che riguarda tutti, ciascuno per la sua parte, ma che vale soprattutto per chi ha responsabilità di governo e di indirizzo dei processi (politici, imprenditori, professionisti, giornalisti, esponenti del terzo settore) e che con i cittadini deve condividere le ragioni strategiche delle decisioni. Per questa ragione – in queste ore è partita, finalmente, la raccolta di firme – serve un gesto politico forte come quel consiglio comunale aperto sulle mafie, più volte nominato e mai convocato, che avvi una discussione pubblica e partecipata sul presente e il futuro di Roma, ma lo stesso potrebbe fare la Regione.
Da qui (naturalmente non è questa la sede per andare nello specifico delle proposte) possono partire iniziative istituzionali e politiche, atti amministrativi su piano anticorruzione (da implementare secondo le indicazioni dell’Autorità nazionale), gioco d’azzardo, riciclaggio (sul modello milanese), sistema opendata anche per i municipi (dove si annida una grande parte della corruzione), appalti, antiusura (una delle piaghe sociali prima ancora che criminali per Roma), può venire nuovo impulso alla commissione legalità.
Ma è su un nuovo sistema di welfare orientato che deve spingere l’amministrazione comunale. Lo abbiamo scritto con il dossier “Mammamafia” l’anno scorso, è venuto fuori in maniera sconvolgente con l’inchiesta su Mafia Capitale, lo ha detto con grande autorevolezza e la solita e rigenerante schiettezza papa Francesco durante la sua recente visita a Tor Bella Monaca: “Le persone di questa periferia sono messe a dura prova dalla disoccupazione e costrette a fare brutte cose. La mafia usa i poveri per fare il lavoro sporco”. Parole inequivocabili, che nessuno ha avuto voglia di commentare. C’è insomma un welfare parallelo a Roma, e lo pagano i clan.
Con la violenza agitata o praticata. Con un consenso costruito con i miliardi della droga e imponendo la propria presenza sui territori, dando pane e lavoro a chi ne ha bisogno, facendo credito e assicurando vigilanza e servizi alle imprese, vuotando milioni di euro nelle tasche dei professionisti, modificando la stessa struttura del mondo cooperativo e del terzo settore. Di fronte a questa situazione drammatica – e sotto gli occhi di tutti – serve un grande patto per Roma che ha bisogno di strade, idee, interlocutori inediti: le ricette messe in campo fino ad oggi, gli attori che le hanno applicate hanno semplicemente fallito.
Quindi non protocolli di facciata, non la scorciatoia di chiedere più forze dell’ordine e telecamere ma – nel giusto rapporto di collaborazione con forze dell’ordine – una serie di interventi sociali. Una strategia di ampio respiro e pensiero lungo (su cui sfidare anche il governo nazionale e la regione) che faccia uscire Roma dalla logica dell’emergenza, del centralismo amministrativo che impedisce ai territori di trovare le proprie vocazioni, dalle scelte retrive e razziste che hanno prodotto i ghetti, che preveda interventi sulle aree geografiche e le fasce sociali del disagio, investimenti sui laboratori territoriali, formativi, sportivi e artistico-culturali, risorse sulla casa,idee e finanziamenti per promuovere forme di nuova economia nei luoghi della crisi delle produzioni, politiche sociali che vadano incontro alle legittime esigenze di sicurezza dei cittadini che vogliono liberare i quartieri dalla droga che arricchisce i narcotrafficanti, un piano di contrasto alla speculazione edilizia, la rigenerazione dei quartieri, la valorizzazione delle terre pubbliche, l’investimento su progetti innovativi per i beni pubblici (e quelli confiscati e sequestrati, che sono centinaia) capaci di rappresentare luoghi di protezione e promozione sociale, di composizione degli interessi territoriali, di sperimentazione e innovazione, la promozione delle attività nelle periferie (per esempio prevedendo incentivi economici per chi svolge servizi pubblici o di interesse pubblico).
Roma ha bisogno di un progetto ambizioso di cambiamento che sappia parlare senza remore di mafia e sappia praticare i diritti sociali e civili. Una grande ambizione per uscire da una crisi economica e sociale, di credibilità e di senso, che il governo della città deve costruire dentro un rinnovato rapporto con i cittadini costruito promuovendo luoghi di discussione e partecipazione e nuove forme di bilancio partecipato. In questo senso, come ripetiamo da anni, Roma può dotarsi di uno strumento antimafie (un osservatorio, un’agenzia, una struttura) operativo e concreto – non di facciata – che abbia come obiettivo la costruzione di una strategia stabile e coerente di contrasto alle mafie e ai fenomeni criminali, di sostegno alle fasce di popolazione più esposte al rischio criminale, di raccolta delle istanze dei cittadini. Un luogo di sperimentazione di pratiche di partecipazione, di mediazione sociale con quella parte di città che non trova ascolto nelle istituzioni.
Un progetto per i prossimi decenni che deve misurarsi su strade inedite, all’altezza di una Capitale europea a cui tutti sono chiamati e dentro il quale le forze sociali (quale che sia la forma che troveranno) dovranno fare un percorso originale, utile ai cittadini, dentro una stagione fatta di conflitti e paziente lavoro di ricucitura, di dialettica aspra e di dialogo. Con proposte serie, concrete, praticabili che stanno nel merito delle cose – come da Corviale alla Cecchignola, da Ponte Milvio a Tor Pignattara, da Cinecittà al Pigneto – le cittadine e i cittadini hanno già dimostrato di sapere fare.
(Il contributo di Danilo Chirico, portavoce di daSud, pubblicato su Comune.info)