di Stefano Campetta
In ogni società e in ogni periodo storico esistono aspetti sociologici che, da soli, riescono a fotografare lo stato attuale della civiltà. Tra questi, la musica è forse il più potente specchio culturale. Nelle trincee militari risuonavano le marcette, cadenzate per sincronizzare il passo dei soldati verso la battaglia. Nelle raffinate sale da tè della nobiltà, il valzer lento accompagnava movenze eleganti e rituali sociali. Nei movimenti popolari di resistenza, le canzoni di lotta erano essenziali, costruite su pochi accordi ripetuti per sostenere testi carichi di significato, capaci di raccontare storie di ribellione e coraggio.
E poi ci sono loro: i narcos.
In questo contesto, la musica diventa ancora una volta voce della società. I narcos messicani hanno scelto una colonna sonora precisa per raccontare le loro gesta: i narcocorridos. Il termine nasce dall’unione di “narco” (legato al
narcotraffico) e “corridos”, il tradizionale genere musicale messicano che, da secoli, narra storie di eroi popolari, fuorilegge e rivoluzionari. I narcocorridos, però, hanno deviato la rotta, glorificando le vite di boss come Miguel Ángel Félix Gallardo o Joaquín “El Chapo” Guzmán, trasformandoli in protagonisti di leggende moderne.
Ma attenzione: dietro queste ballate che inneggiano a ricchezza, potere e pericolo, si nasconde una realtà brutale. I cantanti di narcocorridos non vivono
vite semplici. Il loro ruolo non è solo quello di intrattenere, ma di mantenere in vita il mito dei cartelli, di compiacere i loro capi e, soprattutto, di diffondere un messaggio chiaro: la vita del narco è affascinante, estrema, letale, ma piena di
soldi, vizi e piaceri. Tuttavia, raccontare certe storie ha un prezzo. Alcuni artisti hanno pagato con la vita per aver cantato il nome sbagliato o esaltato il cartello rivale. Tra i casi più noti:
- Valentín Elizalde, assassinato dopo aver cantato “A Mis Enemigos” durante un concerto, brano considerato provocatorio verso un cartello rivale.
- Chalino Sánchez, icona del genere, ucciso nel 1992 dopo aver ricevuto un biglietto minaccioso durante un concerto.
- Sergio Vega (“El Shaka”), assassinato poco dopo aver negato pubblicamente le voci sulla sua morte — ironia macabra che sigilla il suo destino.
Eppure, anche un genere così radicato nella tradizione messicana non è rimasto immune al cambiamento.
È qui che entra in scena la trap, portando con sé nuove sonorità e un’estetica completamente diversa. I corridos tumbados nascono come evoluzione naturale: agli strumenti classici come chitarre e fisarmoniche si affiancano bassi profondi (808), batterie sincopate (909), sintetizzatori taglienti e, ovviamente, l’autotune esasperato. Artisti come Natanael Cano e Peso Pluma hanno traghettato il genere verso una nuova generazione, creando ponti tra la vecchia scuola dei narcocorridos e il moderno immaginario trap.
Oggi i narcos non ascoltano più solo ballate malinconiche che evocano deserti polverosi e fughe rocambolesche.
Ora nelle loro SUV scure — vetri oscurati e gomme larghe — risuonano beat moderni che strizzano l’occhio alla
cultura pop, trasformando l’estetica del cartello in qualcosa di più globale e riconoscibile. È come se, ad un tradizionale sorso di tequila ne avessero aggiunto uno di spritz, più moderno, assottigliando il confine tra mito e realtà, mentre il basso fa vibrare le portiere e l’autotune trasforma storie di sangue e lusso in inni immortali.
Questa playlist è un viaggio musicale in quel mondo: tra le radici profonde dei narcocorridos e il volto moderno della trap, in un equilibrio precario tra tradizione e innovazione, tra leggende polverose e beat contemporanei.