Non ha affatto ragione chi richiama l’espressione dei “professionisti dell’antimafia”. Primo perché Sciascia non l’ha mai scritta, secondo perché l’uso che se ne fa è spesso strumentale e fuorviante e serve a delegittimare furbescamente chi la lotta alla mafia la fa davvero. D’altra parte, si sa, l’Italia ha poca cura della lotta alla mafia e anche degli intellettuali.
L’espressione di Sciascia è impropria, eppure il problema c’è anche se per molto tempo abbiamo tutti finto di non accorgercene provando a salvaguardare una unità nella lotta alle mafie che pensavamo fosse utile all’obiettivo. E, per la verità, in una prima fase ci siamo riusciti. Oggi però quell’unità non c’è più. E, checché se ne dica, anche la lotta alle mafie – dalle istituzioni ai partiti ai movimenti – dopo anni di risultati importanti segna il passo. Per questa ragione, è necessario per l’antimafia ripensare il suo percorso. Da qualunque punto di vista la si voglia praticare.
IL FRONTE SPACCATO
Chi frequenta il mondo dell’antimafia lo sa: il fronte costruito dopo le stragi del 1992 non esiste più, s’è rotto. Da molto tempo. I protagonisti di quella grande stagione sono tutti ancora in campo, (quasi) tutti però stanno facendo un percorso differente (qualcuno lo ha persino abbandonato scegliendo porti più sicuri). La prima, e forse più significativa, cristallizzazione di tutto questo sono state, la scorsa primavera, le elezioni comunali a Palermo in cui era erano impegnati (o si sono schierati) tantissimi esponenti del mondo cosiddetto antimafia. E non perché le posizioni in campo – come è naturale che sia – fossero differenti, piuttosto per la violenza dei toni, il veleno delle relazioni, i retropensieri e gli sgambetti. Un racconto schematico può servire a rendere più chiaro tutto questo. La partita inizia alle Primarie del centrosinistra quando Rita Borsellino (sostenuta da Leoluca Orlando, Claudio Fava e Francesco Forgione) viene sconfitta da Fabrizio Ferrandelli che ha il sostegno di Rosario Crocetta, Sonia Alfano e Giuseppe Lumia. Lo schema si ribalta, e si guasta, alle elezioni comunali quando Orlando contro tutti e con un colpo di teatro – e senza passare per le primarie – diventa sindaco di Palermo.
Le Regionali siciliane dello scorso ottobre hanno fatto il resto. Con il duello a distanza tra Claudio Fava (che ha avuto anche di Nando Dalla Chiesa e l’appoggio per nulla convinto di Rita Borsellino e di Leoluca Orlando) e Rosario Crocetta, sponsorizzato da Lumia, con la Alfano defilata e con il sostegno invece della nipote di Rita e Paolo Borsellino, Lucia (assessore regionale alla Sanità. Il risultato di tutto questo – prima della vittoria di Crocetta grazie anche all’alleanza con l’Udc che fu di Totò Cuffaro e senza una maggioranza in consiglio che si allarga giorno per giorno agli uomini dell’ex governatore Lombardo – è stato prima la frattura delle famiglie, le spaccature dei movimenti (e il ricollocamento di alcuni con il neogovernatore), poi lo spaesamento dei cittadini, poi ancora alleanze imbarazzanti e infine la derubricazione delle tematiche antimafia a grottesche e inutili contese. Con il rischio che non diventino mai davvero agenda di governo.
LA SICILIA E L’ITALIA
Palermo e la Sicilia non sono certo l’Italia. Eppure rappresentano il centro dell’antimafia “tradizionale” (lì c’è stata la rivolta postr 1992, lì è nata la Carovana antimafia, lì è nata Addio pizzo, lì sono stati uccisi troppi martiri, lì c’è l’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia che condiziona la discussione pubblica da mesi). Per questa ragione le dinamiche e le divisioni isolane non solo locali ma – se si parla d’antimafia – hanno un peso decisivo su tutto il Paese.
Ecco perché – con le elezioni regionali e politiche alle porte – c’è una situazione elettrica che coinvolge, in modo diretto o indiretto, partiti, liste civiche, reti, associazioni e movimenti e aprono scenari nuovi con polemiche violente, alleanze innaturali tra antichi nemici, divisioni tra vecchi amici, imbarazzi e spregiudicatezze. Con il rischio, ancora una volta, di schiacciare l’antimafia dentro la polemica e sfocando l’attenzione dai temi. Con il vantaggio, per una volta, che gli schieramenti in campo servano a fare finalmente chiarezza sulle posizioni. Sfatando il mito dell’unità dell’antimafia: che non esiste più, che non ha più senso di esistere per come finora è stata concepita. Che non può essere un assioma, ma il frutto di un lavoro costante di confronto.
IL QUADRO CONFUSO
Il quadro è aperto e confuso. A sparigliare le carte nel fronte antimafia ci ha pensato l’ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia che guida uno schieramento che tiene insieme due delle anime dell’antimafia (spesso contrapposte soprattutto a proposito della polemica tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e la procura di Palermo sulla trattativa e il rapporto con le istituzioni) con candidature che fanno riferimento al mondo di Libera, l’associazione di don Ciotti, e alle Agende rosse di Salvatore Borsellino. Sono in campo per Ingroia quindi la direttrice nazionale di Libera Gabriella Stramaccioni e il numero uno di Flare (la rete internazionale dell’associazione di don Ciotti) Franco La Torre (figlio di Pio La Torre), dirigente del Pd ed ex presidente della consulta provinciale antimafia di Roma (nominato da Nicola Zingaretti). In quest’area si collocano il magistrato e sindaco di Napoli Luigi De Magistris, la presidente della commissione parlamentare europea Sonia Alfano e lo stesso Salvatore Borsellino.
Il Partito democratico alla candidatura di Antonio Ingroia ha risposto strappando il procuratore nazionale Antimafia Piero Grasso (che era già dato in lista con i centristi di Mario Monti). Una candidatura di peso che ha provocato immediate polemiche con Ingroia (uomo da sempre vicino al “nemico giurato” di Grasso, Giancarlo Caselli a cui proprio Grasso ha soffiato il posto di capo della Dna). E il Pd, che ha accusato il colpo per l’abbandono di La Torre dopo avergli negato una risposta per settimane, ha rimpolpato la sua pattuglia antimafia, proponendo Davide Mattiello, strettissimo collaboratore di Don Luigi Ciotti del Gruppo Abele e Libera, confermando Laura Garavini, leader dell’associazione tedesca Nein Danke e capogruppo uscente in commissione Antimafia, Pina Picierno che s’è spesso data da fare su Scambia e la Campania, ha chiesto di candidarsi alla giornalista campana minacciata Rosaria Capacchione e s’è vista sbucare dalle primarie la giovane democratica (e animatrice di Libera) di Avellino Valentina Paris. Non sarà riconfermata invece la moglie di Franco Fortugno, Maria Grazia Laganà e non hanno trovato posto nelle liste – suscitando qualche polemica – le sindache antimafia del Pd Maria Carmela Lanzetta ed Elisabetta Tripodi. Al Senato invece ci sarà la lista Megafono promossa da Crocetta (che è un esponente del Pd), con il sostegno pieno e ufficiale della fondazione Caponnetto, e in cui troverà posto il derogato del Pd (che non ha voluto però passare per le primarie e ha scelto la civica) Lumia insieme al mecenate Antonio Presti. Dentro Sinistra ecologia e libertà invece a parte il leader Nichi Vendola, a lungo in commissione antimafia, sono in lista Claudio Fava, l’ex presidente della commissione Antimafia Francesco Forgione, la portavoce dell’associazione daSud Celeste Costantino, l’ex leader di Flare Michele Curto.
Rischia invece di restare fuori dal Parlamento, dopo molti anni, la deputata calabrese Angela Napoli in rotta con i big di Fli per la sua opposizione ferma alla giunta calabrese guidata da Giuseppe Scopelliti. Ha scelto di candidare la sindaca anti-‘ndrangheta di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole la lista del presidente del consiglio uscente Mario Monti. Non risultano al momento candidature di chiaro stampo antimafia negli schieramenti che fanno capo a Silvio Berlusconi (che si armerà invece probabilmente di una lista per convogliare tutti i condannati). Segno che più di qualcosa non va.
LA SFIDA
C’è un grande affollamento insomma nel mondo antimafia. Ma questo non vuole automaticamente dire che le cose miglioreranno. Finora, infatti, i partiti hanno concepito il loro impegno antimafia decidendo di lasciare l’iniziativa in mano a pochi “specialisti” (che in questi anni hanno esercitato il proprio impegno dentro o fuori dalle istituzioni), come se si trattasse di un semplice argomento settoriale. Si tratta di personalità importanti che hanno costruito spesso interessanti iniziative politiche e anche divisioni e lacerazioni. Quello dei partiti è soprattutto un grave difetto di interpretazione della realtà, di cultura antimafia, che ha provocato gravi ritardi sulle politiche, che ha provocato un uso strumentale e sciocco di parole come sicurezza e legalità (che infatti sono del tutto svuotate del loro significato), che ha fatto dell’impegno contro i clan un valore condizionato (per esempio all’esigenza di scendere a compromessi su certi territori con i capibastone del partito che magari hanno rapporti non proprio limpidi sul territorio). Un rischio che, alla luce di certe candidature che in queste ore vengono sventolate come bandiere, è attualissimo. Ecco perché oggi alla vigilia di queste elezioni, regionali e nazionali, l’intero movimento antimafia (responsabile come i partiti) deve raccogliere la grande sfida che gli si pone davanti, che deve passare per l’autocritica e la chiarezza. Per nuove parole.
La prima di queste parole deve essere impegno. E deve servire a spiegare che è giusto e legittimo fare politica per chi è impegnato nel mondo antimafia, che non può perciò valere l’argomento (demagogico e anche piuttosto comodo) che per essere credibili non bisogna schierarsi. Perché mai una persona onesta non può impegnarsi in politica? Perché chi è antimafia non può sporcarsi le mani con l’impegno?
La seconda di queste parole deve essere rinnovamento. Va ripensata cioè l’idea che debba esistere un fronte dell’antimafia unico e compatto. Che non esiste più, che dopo avere esercitato la sua funzione ha perso la spinta propulsiva. E il rinnovamento può e deve passare attraverso le nuove generazioni di politici antimafia. La terza parola è partecipazione. Perché l’antimafia in politica non deve essere lasciata in mano a chi già la fa nella società, costitudendo di fatto la foglia di fico di partiti politici e istituzioni che invece nel loro corpo sono gravemente compromessi: si deve lavorare invece perché l’impegno antimafia non sia di pochi ma diffuso e popolare. La quarta parola è amministrazione, buona amministrazione. Bisogna cioè costruire percorsi di normalità, trasparenza, welfare di prossimità, occupazione. La quinta parola è invece opportunità: vanno infatti estesi i diritti, sociali e civili, che rappresentano l’altra faccia della medaglia dell’oppressione mafiosa.
L’antimafia non può essere un capitolo del programma elettorale, un titolo di una pagina internet dei candidati o un nome o una faccia da mostrare come uno spot in campagna elettorale: deve essere il punto di vista attraverso cui governare, il prerequisito per l’agire pubblico e politico, il modo di leggere i processi sociali ed economici, persino la crisi del capitalismo. La risposta alla crisi dell’antimafia è allora non l’affollamento delle liste o la polemica sulla trattativa Stato-mafia, non è la delega agli specialisti, è piuttosto la costruzione faticosa di un’idea di Paese. Davvero libero. Radicalmente senza le mafie. O ne pagheremo le conseguenze. Perché, come diceva Sciascia, questa volta proprio lui, i nodi vengono al pettine, quando c’è il pettine.
Dentro questo quadro nasce e lavora l’associazione daSud.