Antimafia prerequisito dell’agire pubblico e politico
Non ha affatto ragione chi richiama l’espressione dei “professionisti dell’antimafia”. Primo perché Sciascia non l’ha mai scritta, secondo perché l’uso che se ne fa è spesso strumentale e fuorviante e serve a delegittimare furbescamente chi la lotta alla mafia la fa davvero da parte di finti garantisti che nulla sanno e vogliono sapere delle mafie. D’altra parte, si sa, l’Italia ha poca cura della lotta ai clan e anche della cultura e degli intellettuali.
L’espressione di Sciascia è impropria, dicevo. Eppure il problema c’è anche se per molto tempo abbiamo tutti finto di non accorgercene. Delegando a pochi l’impegno contro le mafie per un verso, provando a salvaguardare una unità nella lotta alle mafie che pensavamo fosse utile all’obiettivo per l’altro.
E, per la verità, in una prima fase ci siamo riusciti. Perché il movimento antimafia – con i suoi protagonisti – ha rappresentato un’avanguardia politica, culturale e sociale di questo Paese. Ha colto prima di altri le trasformazioni e le contraddizioni italiane, ha capito dove stavamo andando e provato a individuare anche le possibili soluzioni.
Oggi però quel modello di antimafia – dalle istituzioni, ai partiti, ai movimenti – segna il passo. E non dobbiamo avere paura di ammettere i nostri limiti: l’analisi dei processi è arretrata, il fronte è diviso, le parole d’ordine datate, i riferimenti culturali logori, le battaglie parcellizzate, le alleanze di un tempo sfaldate, le relazioni più recenti a volte troppo pericolose. Per questa ragione, è necessario per l’antimafia ripensare il suo percorso. Da qualunque punto di vista la si voglia praticare. Per questa ragione abbiamo voluto chiamare questa nostra assemblea RESTART ANTIMAFIA.
I PERSONALISMI E IL FRONTE CHE NON C’È
Chi frequenta il mondo dell’antimafia lo sa: il fronte costruito dopo le stragi del 1992 non esiste più, s’è rotto. Ormai da molto tempo. I protagonisti di quella grande stagione sono tutti ancora in campo, (quasi) tutti però stanno facendo un percorso differente (qualcuno lo ha persino abbandonato scegliendo porti più sicuri). Una dimostrazione plastica di quello che sto dicendo si può avere guardando a cosa è accaduto in Sicilia nell’ultimo anno, alle elezioni comunali di Palermo prima e alle elezioni regionali dopo.
Quello che più ha colpito è che nell’isola del 61 a 0 di stampo berlusconiano, il fronte antimafia non solo s’è spaccato – che non per forza si deve scegliere la stessa opzione politica – ma s’è reso protagonista dei peggiori e avvelenati elementi di violenza della campagna elettorale. Che cosa significa? Che s’è persa una spinta propulsiva, che la personalizzazione ha sconfitto le idee, che per vincere si rendono necessarie alleanze tutt’altro che chiare e cristalline. E su questo, sono sicuro – e sta già accadendo – ne vedremo delle belle. Il risultato è stato quindi prima le spaccature dei movimenti della società civile, poi lo spaesamento dei cittadini, poi ancora alleanze imbarazzanti – lo dicevo – e infine la derubricazione delle tematiche antimafia a grottesche e inutili contese. Con il rischio che non diventino mai davvero agenda di governo. Al di là di qualche slogan o iniziativa di facciata.
SICILIA, ITALIA
Palermo e la Sicilia non sono certo l’Italia. Eppure rappresentano il centro dell’antimafia “tradizionale”. Lì ci sono state le stragi, lì sono stati uccisi troppi martiri, lì sono nate le lotte contadine e antimafia, lì c’è stata la rivolta post 1992, lì è nata la Carovana antimafia. Lì – ancora – un governatore è finito in cella e un altro s’è dovuto dimettere per questioni di mafia. E nel tribunale di Palermo si sta celebrando il processo per la trattativa Stato-Mafia che condiziona la discussione pubblica da mesi. (A questo proposito, una sola annotazione su una vicenda che meriterebbe una sessione ad hoc: le conclusioni a cui è giunta la commissione parlamentare Antimafia del presidente Pisanu rappresentano un inutile e deludente contributo di conoscenza per una vicenda fondamentale della storia d’Italia).
Per questa ragione parto dalla Sicilia per raccontare della situazione elettrica che sta vivendo il nostro Paese in queste ore, alla vigilia di una decisiva stagione elettorale. Fino a oggi, infatti, abbiamo denunciato che il tema delle mafie è stato trascurato e lontano dal centro della discussione pubblica: da ultimo lo abbiamo fatto nei confronti del governo Monti che – scusate la brutalizzazione necessaria del ragionamento – non s’è posto nemmeno il problema delle mafie. Come si evince dal bilancio di un anno di governo pubblicato sul sito di Palazzo Chigi dove di mafie non c’è traccia. Non è il caso di rivendicare i provvedimenti sulla corruzione e sull’incandidabilità: non sono soltanto inefficaci, sono anche dannosi perché trasmettono un messaggio falsato della realtà. Non andavano quindi sostenuti per non dare sponde e alibi a un compromesso al ribasso. Dalla politica dobbiamo pretendere gesti e scelte di chiarezza.
Oggi invece, forse per la prima volta, in questa campagna elettorale, il tema della lotta alla mafia sta diventando centrale (o almeno tra quelli più significativi) nella discussione pubblica. L’annuncio delle candidature alle elezioni politiche (dalla lista Monti alla lista Ingroia, passando per il Partito democratico e Sel) ha determinato un vero e proprio stravolgimento che coinvolge partiti, liste civiche, reti, associazioni e movimenti e apre scenari inediti. Un passo in avanti? Lo misureremo col tempo. Finora sembra proprio di no, se guardiamo alle polemiche violente, alle alleanze innaturali tra antichi nemici, alle divisioni tra vecchi amici, a certi imbarazzi e spregiudicatezze. Di fronte a una novità, rischiamo di commettere gli stessi errori del passato: quello cioè di lasciare l’iniziativa in mano a pochi “specialisti” come se si tratti di un semplice argomento settoriale con la conseguenza di schiacciare le politiche antimafia dentro la polemiche e nella lotta tra gruppi o lobby, dentro un confronto tra tifosi. O ancora quello di restare chiusi nella discussione sull’andamento dei processi o sul numero degli arresti (che tutti possono leggere a piacimento), quello di costruire lacerazioni fondate non sulle politiche ma sulle personalizzazioni, quello di restare indietro nella comprensione della realtà, quello di non affrontare il tema della complessità del presente e del governo, quello di considerare la lotta ai clan un valore condizionato (per esempio all’esigenza di scendere a compromessi su certi territori con i capibastone del partito che magari hanno rapporti non proprio limpidi sul territorio), quello di gestire l’emergenza e di non dedicarsi mai alla programmazione, di arriva sempre un attimo dopo, quando non si può fare altro che piangere lacrime di coccodrillo e dispensare solidarietà di comodo.
Un errore. Grave, gravissimo. Frutto di colpe (a volte di dolo, ha dimostrato la storia). E frutto di un ritardo culturale di partiti delegittimati dai fatti e di una società civile agonizzante di fronte al sentimento semplicistico e semplificatorio dell’antipolitica politicante.
CANDIDATURE O POLITICHE?
Ecco perché certe candidature sventolate in queste ore come bandiere rischiano di essere un autogol sia per il movimento antimafia, sia – cosa ben più importante – per la lotta alle mafie di questo Paese. Ecco perché oggi alla vigilia di queste elezioni, regionali e nazionali, l’intero movimento antimafia e la società civile (responsabili come i partiti) devono raccogliere la grande sfida che gli si pone davanti, che deve passare per l’autocritica e la chiarezza. Assumendo nuove parole, cancellandone delle altre.
Bisogna spiegare innanzitutto il valore della parola impegno e responsabilità. Io penso che sia giusto e legittimo fare politiche per chi fa l’antimafia. Dirò di più: considero demagogica e comoda l’argomentazione di chi pontifica e non si impegna o l’idea che per essere credibili non bisogna schierarsi. Perché mai una persona onesta non può impegnarsi in politica? Perché chi è antimafia non può sporcarsi le mani con l’impegno? Perché le associazioni non dovrebbero avere rapporti con la politica? La misura di tutto deve sempre stare nelle cose che si fanno. E allora il rapporto con la politica deve essere franco e fuori da ogni logica di subalternità. Bisogna coltivare il rispetto dell’istituzione ma non per forza chi occupa il ruolo istituzionale rappresenta un interlocutore credibile. Se le mafie stanno nel potere occupano anche certe istituzioni. A noi il compito di guardare le cose in chiaroscuro. A noi la responsabilità delle scelte e dei percorsi. Non certo in maniera ideologica, ma a partire dai contenuti. daSud è un’associazione che ha un orientamento di sinistra e non lo nasconde. È una scelta fatta in controtendenza rispetto a quasi tutte le altre associazioni, ma che consideriamo un punto di onestà e trasparenza nei confronti di chi decide di fare un pezzo di cammino con noi. Tuttavia, non abbiamo nessun legame di natura partitica, non abbiamo soltanto relazioni a sinistra e difendiamo la nostra assoluta autonomia, il diritto di critica e la capacità di esprimere dissenso e conflitto. Anche oggi che un partito politico ha scelto di premiare con una candidatura alle Politiche la nostra portavoce, Celeste Costantino. Anche oggi che abbiamo deciso di misurarci con la stesura del programma del candidato alla presidenza della Regione Nicola Zingaretti.
La seconda di queste parole deve essere rinnovamento. Va ripensata cioè l’idea che debba esistere un fronte dell’antimafia unico e compatto. Che non esiste più, che dopo avere esercitato la sua funzione ha perso la spinta propulsiva. E il rinnovamento può e deve passare attraverso le nuove generazioni di politici antimafia. La terza parola è partecipazione. Perché l’antimafia in politica non deve essere lasciata in mano a chi già la fa nella società, costituendo di fatto la foglia di fico di partiti politici e istituzioni che invece nel loro corpo sono gravemente compromessi: si deve lavorare invece perché l’impegno antimafia non sia di pochi ma diffuso e popolare.
Vanno invece se non del tutto archiviate, almeno ripensate due parole abusate e che difatti sono state svuotate del tutto del loro significato. Sto parlando di parole come legalità e sicurezza. Faccio due esempi brevi, che riguardano da vicino questo territorio. E’ giocando in maniera irresponsabile sul concetto di sicurezza e sulle paure delle persone, Gianni Alemanno è riuscito a diventare sindaco di Roma, salvo poi capire a proprie spese che non è sufficiente fare i raid notturni in moto a caccia di prostitute per soddisfare la giusta esigenza dei cittadini di vivere tranquilli. Ed è sulla legalità che è franata l’esperienza di Renata Polverini in Regione. Non in senso stretto però: perché è non solo da Fiorito che i cittadini sono rimasti sconvolti, ma anche da comportamenti assolutamente legali (come le spese pazze della giunta o dei gruppi regionali) ma contrari a qualsiasi etica e opportunità. Ecco che allora né il richiamo al concetto di sicurezza, né a quello di legalità è sufficiente per governare bene un territorio.
Bisogna invece parlare di buona amministrazione, opportunità e giustizia sociale. Perché si devono costruire percorsi di normalità, trasparenza, welfare di prossimità, occupazione. Perché vanno estesi i diritti, sociali e civili, che rappresentano l’altra faccia della medaglia dell’oppressione mafiosa. In questo senso noi proponiamo con forza al governo regionale e al governo nazionale un forte investimento nella direzione del reddito minimo garantito: uno straordinario, formidabile strumento di liberazione dalle mafie, dal ricatto occupazionale di cattivi politici e mafiosi. E un forte investimento sul diritto allo studio anche – magari – utilizzando in questa direzione i soldi che provengono dalle confische dei beni mafiosi.
IL CONSENSO
Tutto questo però passa da un bagno nella realtà. Che significa capire cosa sono oggi le mafie (e qui sottolineo la necessità di tornare a studiare) e calarsi in un altro grande tema: il consenso. Con tutte le sue contraddizioni. Le mafie si sostanziano nella capacità di stare nel potere, nella società. Di essere un pezzo di politica (non solo di infiltrarla), di fare e disfare candidature, elezioni e bocciature, di distribuire incarichi e far vincere appalti. Lo stesso discorso vale per l’economia: non si limitano a condizionarla, ne sono parte integrante. Falsano il mercato, chiedono la mazzetta (anche a Roma c’è il controllo del territorio in alcune zone), puliscono il denaro sporco, offrono denaro liquido alle aziende, gestiscono grandi capitali, investono in immobili e stanno dentro i vertici delle grandi società. E le mafie indossano il cappuccio della massoneria (come dimostrano anche le ultime inchieste), hanno relazioni con i servizi segreti, stanno nel mondo delle professioni e nell’università, si sono infiltrate nelle forze dell’ordine e nella magistratura. Da Sud a Nord. Questo vuol dire che rappresentano un metodo di organizzazione di un pezzo di società, di un sistema economico. In questo senso bisogna capire cos’è il consenso. Perché le mafie oltre a essere una presenza violenta e prevaricatrice, hanno e gestiscono consenso. Naturalmente andrebbe fatto un ragionamento sulla qualità di questo consenso. Ma quale che sia, non cambia il senso delle cose.
Si tratta di una questione che riguarda sia le fasce alte della società sia le fasce basse. A proposito delle classi dirigenti e della borghesia, basti richiamare le dichiarazioni del procuratore aggiunto di Milano Ilda Boccassini in occasione dell’inchiesta “Infinito” quando ci mise di fronte al fatto che gli imprenditori milanesi (che non collaborano con gli investigatori) non sono soltanto vittime della ‘ndrangheta, ma hanno convenienza a fare affari con i clan. Un discorso che può valere anche per la politica e per il mondo delle professioni.
Faccio solo un esempio su questo, visto che il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone spesso concentra la sua attenzione sul versante economico del potere mafioso. Roma conta nei primi sei mesi del 2012, 3354 operazioni bancarie sospette. Lo dice l’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia: sono 881 in più rispetto allo stesso periodo dell’anno predente. E’ la Capitale d’Italia anche in questo, Roma. Conterà qualcosa che solo una parte infinitesimale delle segnalazioni viene dal mondo delle professioni e che si tratta soltanto di interventi della Banca d’Italia? Io credo di si. Come credo che conti, e molto, in negativo il negazionismo irresponsabile di certa politica e di certe istituzioni a cominciare dal prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro.
C’è poi l’altra faccia della medaglia, che riguarda le fasce più deboli, strettamente collegata alla cattiva gestione della cosa pubblica: la mafia infatti spesso intercetta e soddisfa i bisogni delle persone (la sanità, il lavoro, il welfare). Una capacità che spesso, troppo spesso, il governo nazionale e i governi locali non hanno o al massimo un metodo di lavoro distorto per la cattiva politica e imprenditoria. Ecco allora che le mafie, offrendo servizi e in un certo senso persino opportunità, aumentano il loro radicamento sociale. Da questo punto di vista, la crisi economica e l’arretramento dello Stato nel welfare certamente non aiutano.
Di fronte a questa situazione, dobbiamo dire la verità. Su questo abbiamo lavorato in questi anni. Per mettere a nudo il livello inadeguato di discussione pubblica, l’informazione carente, l’arretratezza dei movimento sociali, la poca consapevolezza delle cittadine e dei cittadini.
Per sconfiggere le mafie dobbiamo imparare a conoscerle e raccontarle, trovare le parole giuste. Perché ci confrontiamo con classi dirigenti che preferiscono nascondere la verità: l’hanno fatto in Sicilia nel dopoguerra, in Calabria negli anni 80, in Lombardia negli anni 90 e accade oggi qui nel Lazio. Un grave errore che accomuna destra e sinistra.
E ci confrontiamo con giornalisti poco curiosi e interessati a fare i giustizieri o a produrre audience e scandali, con aziende editoriali che fanno lotte di potere e non informazione, che pagano poco e male i giornalisti. E ci confrontiamo con un racconto sbagliato, che non aiuta a fare diventare le mafie un patrimonio condiviso. Ci confrontiamo con stereotipi difficili da scalfire e su cui noi siamo intervenuti (come il fatto che non ci fossero vittime innocenti della ‘ndrangheta, come il fatto che le mafie hanno un codice d’onore che impedisce di uccidere donne e bambini, come il fatto che la ‘ndrangheta non ha pentiti, come il fatto che le mafie al nord non esistono, come il fatto che l’omertà è un tratto culturale del sud Italia).
E poi un’altra cosa abbiamo dimostrato: che le classi dirigenti hanno mentito e non hanno pensato al futuro di questa terra. Tutto si tiene, tutto sta all’interno dello stesso quadro sociale. Chi non lo capisce utilizza le categorie di chi pensa che la battaglia antimafia sia inutile, che con le cosche si deve convivere. Utilizza le categorie di chi ha fallito. Bisogna che pronunciamo parole chiare sulle grandi opere (senza per questo decidere di non realizzarle perché c’è la mafia), sul modello welfare, sulla trasparenza nell’attribuzione degli appalti e delle forniture, sulla gestione dei beni confiscati ai clan e su quella dei beni comuni, sui controlli nelle banche (spesso vere e inaccessibili cattedrali del malaffare), sul contrasto vero alla corruzione, sul giusto funzionamento della giustizia, sull’applicazione delle libertà individuali. Sono tanti i temi su cui misurarsi, purché si parta dalla concretezza. Che significa difendere il territorio dalle speculazioni, rigettare la logica che ha portato allo sfruttamento dei migranti a Rosarno o Castelvolturno, dire per esempio sulla gestione dei rifiuti in questa regione che oltre al tema dell’ambiente c’è anche un tema grave di monopolismo e affari che va rotto, significa rivendicare il diritto ai servizi pubblici, pretendere il rispetto delle regole, non confondere il diritto con il favore, ripensare l’organizzazione del mercato del lavoro, uscire dall’esclusività della dimensione penale e repressiva della lotta alla mafia.
IL PREREQUISITO
L’antimafia non può essere un capitolo del programma elettorale, un titolo di una pagina internet dei candidati o un nome o una faccia da mostrare come uno spot in campagna elettorale: deve essere il punto di vista attraverso cui governare, il prerequisito per l’agire pubblico e politico, il modo di leggere i processi sociali ed economici, persino la crisi del capitalismo. Dobbiamo avere – e spero che dal confronto di oggi con le associazioni, i gruppi, i comitati nascano nuovi percorsi da fare su questo e su altri territori e spero anche che i politici presenti, tanti sono candidati, assumano impegni e siano conseguenti – l’ambizione e la capacità di parlare con la gente comune, di creare un nuovo immaginario, utilizzare linguaggi diversi. L’ambizione di praticare diritti, di vivere un’identità nuova. Con rigore e curiosità. Favorendo conoscenza, seminando dubbi, pretendendo risposte.
L’impegno nostro, di tutti noi, deve essere la costruzione faticosa di un’idea di Paese. Davvero libero. Radicalmente senza le mafie. O ne pagheremo le conseguenze. Tutti, nessuno escluso. Perché, come diceva Sciascia, questa sì, i nodi vengono al pettine, quando c’è il pettine. E il pettine possiamo essere noi o le mafie. Si tratta di scegliere. Buon RESTART a tutti.